domenica 1 gennaio 2017

Slovenia 1941-1952, di Franc Perme, Anton Zitnik et alii

È un libro complesso sui morti nelle foibe slovene. Si nota subito che è stato scritto col magone dentro. Vengono messi in luce delitti ed eccidi perpetrati dalle bande titine durante e dopo la Seconda guerra mondiale, entro gli attuali confini della Slovenia. Ne sono autori Franc Perme, Anton Zitnik, Franc Nucic, Janez Crnej e Zdenko Zavadlav. È un argomento sconosciuto non solo ai lettori medi, ma persino a taluni storici.

La copertina del volume tradotto in italiano.

Gli autori del volume sono cinque cittadini sloveni che, forse per la prima volta nel 2000, raccontano i massacri compiuti dai miliziani di Tito principalmente contro i domobranci (esercito regolare sloveno e croato, alleato dei nazisti), contro i miliziani ustascia (filo-fascisti) e contro i cetnici (monarchici jugoslavi anticomunisti) negli odierni confini sloveni. Gli eccidi sono avvenuti in aree mistilingui. Sono quindi coinvolti anche gli ex territori italiani della Valle dell’Isonzo e della costa istriana, come a Tolmino, Plezzo, Caporetto ed altre zone, come Sesana, Parenzo, Aidussina, Vipacco. Negli elenchi dei sepolcri di sloveni, italiani e tedeschi uccisi compaiono anche località oggi in territorio italiano, come: Gorizia, Trieste e Opicina (pp. 375-376).
Quella delle foibe e delle uccisioni slovene è una tematica scottante e di complessa trattazione, per la deliberata carenza di documenti di parte titina e dell’OZNA (Odeljenje za Zaštitu Naroda, Dipartimento per la Sicurezza del Popolo, la polizia politica titina). Essi erano poco propensi a registrare i prigionieri, prima della loro esecuzione, preceduta da una tortura indicibile. Nel volume del 2000 ci sono oltre 150 pagine di testimonianze.
Il titolo del singolare e articolato volume, edito dall’Associazione per la Sistemazione dei Sepolcri Tenuti Nascosti della Slovenia, è: “Slovenija 1941, 1948, 1952. Tudi mi smo umrli za domovino”, stampato a Lubiana, Slovenia, nel 2000. È stato tradotto in italiano, nel 2005 ed edito a Milano col titolo: “Slovenia 1941, 1948, 1952. Anche noi siamo morti per la patria”, a cura della Lega Nazionale d’Istria Fiume Dalmazia, Mirabili Lembi d’Italia.
Mappa delle foibe ed altre cavità. I sepolcri della Slovenia (p. 611 del volume "Slovenia 1941, 1948, 1952").

Una prima edizione di questa poderosa ricerca storica, piena di testimonianze, lettere, fotografie, riproduzioni di documenti, dichiarazioni e articoli di giornale degli anni ‘90 è apparsa a Lubiana nel 1998, opera dei soli primi due autori. Perme, nato a Pecah nel 1926, è un imprenditore pensionato e Zitnik, nato a Grosuplje nel 1940, è stato un dipendente statale.
Dopo il 1998 gli autori hanno cominciato a ricevere scritti e documenti di altre persone coinvolte. Hanno raccolto le deliberazioni di vari consigli comunali sloveni sul tema della segnalazione dei luoghi dei massacri titini, assieme a missive ministeriali, dei tribunali sloveni o di archivi militari di Berlino. Sono arrivate lettere persino dall’Argentina, Australia, Canada da parte di esuli sloveni (p. 14).
Tolmino / Tolmin 1938

Un altro emigrato, tale Anton Pavlic, ha scritto dalla Nuova Zelanda riguardo al sepolcro di massa di Brezice, vicino a Dobovo, per oltre 10 mila persone, trasportati coi treni e denudati, tra i quali in maggioranza domobranci sloveni ed anche di belagardisti, eliminati nell’ottobre 1945 (pp. 712-716).
Franc Perme è fondatore, a Lubiana, sin dal 6 febbraio 1991, dell’Associazione per la Sistemazione dei Sepolcri Tenuti Nascosti. Sotto la sua direzione l’associazione ha fatto costruire tre cappelle, ha fatto collocare 18 insegne con croci, crocefissi e 58 insegne commemorative su lastra di marmo nelle parrocchie, sino al 2000. Molti di tali segni della memoria sono stati profanati, asportati o rovinati il giorno dopo dell’inaugurazione, perché c’è ancora tanto odio da parte dei discendenti dei miliziani di Tito, dato per scontato che i protagonisti della guerra partigiana sono ormai scomparsi, oppure sono molto anziani e malati. 
È tutto un piantare croci e posizionare lapidi, volendo ricordare  “tutti i combattenti” (p. 19) e ritrovarsele profanate, rubate, asportate, imbrattate. Vedi la Cappella profanata a lanci di vernice di pag. 200 e, per le croci rubate, si vedano le pagine seguenti. Ritengo sia la Cappella di Stari Hrastnik, lungo la strada sul Kal; dietro alla Cappella vi è il cimitero dei domobranci sloveni.
Tra gli altri autori, Franc Nucic, nato a Podgorica nel 1929, è un giudice in pensione, invalido di guerra, autore di libri sugli eccidi comunisti. Janez Crnej, nato a Celje nel 1935, è un veterinario in pensione; nel 1990 è stato eletto alla Camera dei deputati della Repubblica Slovena. Zdenko Zavadlav, nato a Sotanje nel 1924, è pubblicista; da giovane fu capo dell’OZNA a Maribor, ma nel 1948 fu incriminato dalle autorità jugoslave come agente informatore e incarcerato fino al 1954, poi lavorò per l’Agenzia turistica alberghiera fino al 1976, anno della quiescenza.
Sebastiano Pio Zucchiatti, Croce a Grosuplje in memoria degli assassinati dai titini nel 1945-1947, pennarello su carta, cm 15 x 21, 2016. Grazie all'artista per la pubblicazione del disegno.

Croci, cappelle e lapidi servono a ricordare l’uccisione perpetrata da parte dei partigiani contro i domobranci sloveni e croati (esercito regolare, alleato dei nazisti) dal 1941 fino agli anni del dopo guerra. Alcune migliaia di domobranci, al termine del conflitto, secondo gli accordi, furono disarmati dagli inglesi e consegnati ai partigiani di Tito, che li passarono per le armi. Gli autori del volume scrivono di 12 mila domobranci sloveni, 18 mila croati, oltre a seimila civili eliminati nelle foibe o in fosse comuni dalla fine di maggio 1945 in poi (p. 159).
Va accennato inoltre che nell’elenco ufficiale delle foibe della Repubblica di Slovenia, consultabile in Internet, si nota, al n. 401, la Foiba di Golobivnica (Grobišče jama Golobivnica), con la puntuale indicazione della nazionalità delle vittime precipitate: slovena ed italiana.
Ci sono molte mappe dei sepolcri (ad esempio a p. 611).
Nel libro ci sono poi numerosi articoli dai giornali sloveni, come ad esempio «Delo» (p. 726), «L’Eco di Grosuplje» (p. 724), «Slovenec» (p. 734). C’è pure la stampa internazionale, come il tedesco «Frankfurter Allgemeine Zeitung», di Francoforte (p. 11-14 e p. 676).

Cartolina di Plezzo / Bovec, 1936, fotografo Agostino Negro. Stampa dello Stabilimento grafico Cesare Capello di Milano. Collezione privata, Udine


Quanti domobranci croati hanno ammazzato?
In conclusione quanti domobranci ed altri anticomunisti croati, suore e bambini incusi, sono stati uccisi dai titini in Slovenia? La cifra pubblicata nel volume è impressionante. Assomma ad un totale di 222.500 persone. Si pensi che le perdite totali dal punto di vista demografico e di guerra in Jugoslavia sono pari a 2 milioni e 22 mila individui (come si evince dalla tabella 6 di pagina 456). Certo, in questo totale ci sono anche le persone emigrate (o scappate), pari a 625 mila, nel periodo che va dal 1939 al 1948, dei quali 44 mila sono rimasti all’estero. I dati si riferiscono alle province jugoslave, senza i territori annessi.
Qualcuno si chiederà come mai 222,5 mila soldati anticomunisti croati, i loro religiosi e i loro congiunti siano finiti uccisi tutti i Slovenia nelle foibe, nelle cave di sabbia, o nei trinceroni anticarro (costruiti dalla Organizzazione TODT, per frenare l’avanzata dilagante del nemico). Il fatto è che la ritirata dei nazisti e dei loro alleati, come erano appunto i domobranci, comportava anche la risalita verso nord e verso il confine austriaco, che era Terzo Reich.
Alla fine della guerra si ritrovarono tutti imbottigliati nel piccolo territorio della Slovenia. Tito e l’OZNA volevano fare presto ad eliminare tutti gli oppositori e i loro familiari. Non ci sarebbe stato posto per dei campi di concentramento e non sarebbero stati tutti nelle prigioni. Dunque parliamo di vittime, di morti ammazzati. Ecco il risultato, allora, riprodotto nella tabella seguente, intitolata dai cinque autori “Domobranci croati e civili assassinati in Slovenia dal 23 maggio 1945” (p. 457):

Dal crocevia della strada Dravograd fino al confine croato            145.000
A Kočevski rog                                                                                  41.000
Sul montuoso Zasavski                                                                   24.000
Nella campagna Breziski – Mostec                                                    6.000
Nel bosco dei Krakov – 11 sepolcri                                                   5.000
Governativi croati, bambini e monache a Lancovo                           1.300
Crni Grob – ed altri governativi assassinati a Lancovo                     200
                                                                                                    ----------
Totale assassinati in Slovenia                                                       222.500  
       
Lubiana, Cattedrale di San Nicola, 21 giugno 1941. Rappresentanti delle autorità italiane: generale Mario Robotti (Comandante XI Corpo d'Armata, che operava nella Provincia di Lubiana), l’Alto Commissario Emilio Grazioli (Alto Commissariato per la Provincia di Lubiana) procedono dietro il baldacchino. Altri militari e carabinieri partecipano alla cosiddetta “Processione del Santo Corpus Christi”.  
Hvala Lepa: Muzej Novejše ZgdovineSlovenije, Oddelek za dokumentarno fotografijo / Grazie a: Museo di Storia Contemporanea Slovenia, Dipartimento di fotografia documentaria.

Quanta Italia c’è nel libro?
Ce n’è abbastanza. Tanto per cominciare ci sono molti militari, dato che l’Italia nel 1941 invade, con la Germania, il Regno di Jugoslavia. La Slovenia scompare essendo suddivisa tra l’annessione italiana della cosiddetta provincia di Lubiana e l’altra parte orientale annessa addirittura al Terzo Reich.
Allora c’è il generale Mario Robotti, comandante delle autorità italiane di Lubiana occupata ed annessa, intenzionato ad aprire “campi di concentramento per l’internamento delle persone sospettate, poiché a Lubiana ve ne erano detenute già 200 e ci si aspettava che il numero avrebbe raggiunto i 1.000” (p. 129).
Poi c’è anche un po’ di Friuli. È fatto cenno al Campo di concentramento di Gonars, in provincia di Udine, per detenere sospetti sloveni e croati (p. 128). Qui finiscono molti ufficiali sloveni, con un “aiutino” dato ai militari italiani da parte della Osvobodilna Fronta (OF), ovvero il Fronte di Liberazione del Popolo Sloveno. Infatti i primi partigiani, sapendo che molti degli ufficiali sloveni erano monarchici e non comunisti, li precettarono ad entrare nell’OF con delle cartoline aperte, cosicché l’esercito italiano venne a sapere i loro indirizzi e li prelevò tutti senza tanti problemi.
Poi sono menzionate le trattative di Tapogliano del 15 giugno 1944. Artefice di tale iniziativa è il prefetto di Gorizia, conte Marino Pace, che prese contatti coi capi partigiani per azioni di non aggressione (pp. 350-353).
Per ringraziare l’OF dei vari favori fatti all’esercito sabaudo imperiale, nel 1943 il generale Guido Cerutti, comandante della divisione “Isonzo” a Novo Mesto “aveva mandato tre vagoni di armamenti, munizioni e divise militari italiane per l’Esercito di Liberazione del Popolo” (p. 144).
C’è anche una specie di eroe nel 1945, quando gli inglesi cedono nelle mani dei titini i domobranci disarmati. È il dottor Valentino Mersola, direttore del Campo di concentramento dei civili. Il 31 maggio 1945 protestò con il maggiore canadese Barr, ufficiale incaricato di consegnare i civili ai titini, perché “gli inglesi mandavano a morte sicura una gran massa di gente” (p. 175). Le proteste di Mersola valsero il rinvio della restituzione dei civili, così egli “salvò da morte sicura seimila sloveni” (p. 177).
Ci sono, infine, gli italiani infoibati a Huda Jama – Lasko, pozzo di Barbana, assieme a sloveni e tedeschi; 2000 uccisi. A Canale d’Isonzo, sotto Hlastec, Dolic Mislinja, assieme a degli ungheresi; 100 ammazzati. Nel fossato anticarro sotto la salita di Mislinja, assieme ad altri ungheresi e ignoti; oltre 500 vittime. Nella foiba del bosco di Tarnova, sul Litorale, tutti italiani; 500 eliminati (p. 784).
Canale d'Isonzo, cartolina anni 1930-1940

Elogi e pecche
Come in tutte le opere miscellanee anche questo grosso volume si presenta in modo composito e affastellato, perché prevale l’impeto di riportare le notizie incredibili, l’aggiornamento inedito, l’intervento, degli anni '90, di esuli sloveni dai vari continenti.
Oltre ai molti elogi di questo volume, già menzionati, vanno accennate, tuttavia, anche le pecche in esso contenute, come le riproduzione di documenti titini non sempre supportata dall’indicazione archivistica (esempio: pp. 290-292). Un libro di denuncia, come questo, è logico che non sia pensato in forma programmatica ed ordinata. Soprattutto se gli autori vengono travolti, come in questo caso, dalle lettere di approvazione, dagli atti ufficiali di ministeri, di tribunali, di archivi della memoria, dalle aggiunte varie, dagli articoli di giornale sul tema e dalle becere contestazioni.
Per certi versi, a mio parere, assomiglia ai libri di denuncia di Giampaolo Pansa, tanto per citare un autore italiano. Eppure qui, in Slovenia 1941, 1948, 1952, si è notata l’incoerenza di certe note a piè pagina: a p. 114 compare la nota 34, ma non c’è prima l’antecedente nota 33 e nemmeno quelle precedenti. Si deve dedurre che sono state riprodotte totalmente alcune pagine di altri libri menzionati in certe parti, ma non se ne comprende bene la lettura e la ricerca delle fonti bibliografiche, purtroppo.
La mancanza di alcuni apparati, come l’indice dei nomi e quello dei luoghi, rende difficoltosa la lettura, la schedatura organica e la rilettura del testo. Oltre alla bibliografia generale mancante, si nota una bibliografia parziale (a p. 79-80). È difficile comporre un’opera “a dieci mani”. Sarà per tale motivo che gli autori intendono chiamare il testo col semplice termine di “Raccolta”.

In conclusione, la varietà estrema del materiale contenuto nel volume non ne agevola l’utilizzo per fini di indagine storica a livello accademico, come ha scritto Raoul Pupo, nella nota 4, dell’articolo “Foibe ed esodo: un'eredità del fascismo?”, 
All’inizio dell’edizione italiana, infine, il traduttore si è lasciato andare ad una “Introduzione, giudizi e chiarimenti del traduttore. Difficoltà incontrate nella traduzione” addirittura di 66 pagine.

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Franc Perme, Anton Zitnik, Franc Nucic, Janez Crnej, Zdenko Zavadlav, Slovenjia 1941, 1948, 1952. Tudi mi smo umrli za domovino, (1.a edizione: Lubiana, Grosuplje 1998, col titolo tradotto: I sepolcri tenuti nascosti e le loro vittime 1941-1948, di Franc Perme, Anton Zitnik, pp. 277), Lubiana Grosuplje, Associazione per la Sistemazione dei Sepolcri Tenuti Nascosti, 2000. Edizione italiana [considerata dagli AA. come la terza]: Slovenija 1941, 1948, 1952. Anche noi siamo morti per la patria. “Tudi mi smo umrli za domovino”. Raccolta, Milano, Lega Nazionale d’Istria Fiume Dalmazia, Mirabili Lembi d’Italia, [2005, l’anno di stampa è dedotto, fra le pagine 380 e 381, nella didascalia delle fotografie a colori n. 22-23], pp. LXVI-792, euro 30.

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Per un approfondimento nel web
Ho incontrato, nelle mie ricerche sull’esodo giuliano dalmata, il racconto di una uccisione di un partigiano da parte di un capo partigiano, poiché il primo si rifiutava si eliminare un arrestato inerme, accusato di collaborazionismo. Il fatto mi è stato riferito, il 4 maggio 2007 a Udine, dalla signora Stefania Bukovec  (Cal di Canale d’Isonzo, provincia di Gorizia, 6 marzo 1921 – Pradamano, provincia di Udine, 22 aprile 2015). 
L’ucciso era Valentino Lipicar, di Cal di Canale d’Isonzo. Vedi, al quinto capoverso, l’articolo in questo blog, intitolato: “Udine, Outing sull’esodo istriano alla presentazione di Rossa terra, di Mauro Tonino”, 2015.

Stefania Bukovec, di Cal di Canale


Sulle vicende della fuga degli italiani da Tolmino, ho ricevuto la testimonianza di Paolo Negro, nato a Tolmino nel 1942. Per la serie “Al nemico che fugge, ponti d’oro”, che significa: “Se non vogliamo brutte sorprese e se un nostro nemico rinuncia a voler fronteggiarci, meglio lasciarlo andare per la sua strada”. In alcune parti della vecchia provincia di Gorizia i partigiani titini lasciavano partire gli italiani, senza far loro alcuna malagrazia, purché se ne andassero. 
Vedi l’articolo, del 2016, intitolato: “Esodo dolce da Tolmino, 1945.”

Cartolina da Tolmino, 1935, fotografo Agostino Negro. Stampa Fotocelere Torino. Collezione privata, Udine

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