lunedì 30 gennaio 2017

Esodo da Fiume al Campo Profughi di Laterina, 1950

«La storia del mio esodo fiumano inizia il 29 novembre 1950 – racconta Ireneo Giorgini, nato a Fiume nel 1937 – cinque anni dopo la fine della guerra. Mio padre, Alessandro Juricich, optò per la cittadinanza italiana, ma la richiesta fu respinta una prima volta con la motivazione: lingua d’uso croata.
Campo Profughi di Laterina, provincia di Arezzo

Il ricorso venne respinto una seconda volta con la motivazione: lingua d’uso non italiana. Forse perché allora il nostro cognome era Juricich, di chiara appartenenza ai territori giuliano-istriano-dalmati. Dal 1930 in avanti i tanti cognomi furono trasformati in lingua italiana d’ufficio. Due fratelli di mio padre divennero Giorgini, perché dipendenti di aziende importanti. Mio padre rinunciò perché non fu obbligato».
La testimonianza di Ireneo Giorgini è già apparsa nel web, in una versione giornalistica, sul sito di Valdarnopost del 9 febbraio 2015, col titolo: “La nostra vita nel campo profughi di Laterina. La testimonianza di due esuli”, di Glenda Venturini. Siccome è un’esperienza significativa e ben raccontata, ci permettiamo di riprenderla e di fare qualche approfondimento.
Ma, signor Ireneo Giorgini, siete riusciti a venir via? «Finalmente, al terzo ricorso fu concesso il visto per andare via – risponde - Partimmo da Fiume il papà Alessandro, la mamma Norma Milotich e il nonno materno con le nostre masserizie, raccolte in dieci cassoni e le valigie. Il nonno era Antonio Milotich, nato a Fiume nel 1868, fu il primo pensionato del silurificio di Fiume, viveva alle Casette, ossia le case popolari dei dipendenti del silurificio. 
La prima tappa dell’esodo fu il Centro Raccolta Profughi (CRP) di Trieste Opicina. Ricordo le strutture semicircolari tipo hangar, con le camerate separate per uomini e per le donne».


Ireneo Giorgini, tra la mamma Norma Milotich e il babbo Alessandro Juricich, poi Giorgini

Come le sembrò questa parte dell’Italia? «Scendemmo a Trieste e mi colpì un fatto – ha detto Ireneo Giorgini – una salumeria aveva in vetrina una mortadella gigantesca, mai vista una così prima. Poi mi feci comprare la Gazzetta dello Sport e la Settimana Enigmistica».
Siete passati per Udine? «Dopo fummo trasferiti a Udine – continua – al Centro Smistamento Profughi e qualche giorno più tardi arrivò la destinazione: Laterina, provincia di Arezzo. Dove? In Toscana! Benché avessi frequentato a Fiume le scuole italiane e studiato la geografia, conoscevo la Toscana, che per me si limitava a Firenze, Pisa e Livorno».
A Laterina cosa succede? «Arrivammo a Laterina la mattina del 5 dicembre 1950 – risponde – la corriera della stazione ferroviaria ci lasciò dopo 5 km di strada bianca, davanti a una stradina. Ci chiedevamo: dove andiamo? Scendemmo e in lontananza vedemmo delle costruzioni basse del Centro Raccolta Profughi. Ci avvicinammo con le nostre valigie e una persona ci rivolse la parola: “Da dove venì?” – ovviamente in dialetto. “'Da Fiume”. E quello: “Andé a presentarve in ufficio”. E da lì è iniziata la nostra carriera di ospiti del CRP di Laterina. In Italia erano presenti 106 strutture di quel tipo. Location, si direbbe oggi!»
Come era la vita al CRP di Laterina? «La nuova vita iniziò lì. – ha detto Ireneo Giorgini –  Lascio immaginare i miei genitori all’epoca quarantenni a vedersi assegnare un posto alla “baracca 12”, in comunità con un’altra famiglia. Il personale del CRP ci aiutò a portare dal magazzino le brande, i pagliericci e la paglia per preparare i giacigli, mentre il nonno fu immediatamente ricoverato in infermeria: aveva 82 anni. Morì a Torino nel 1956».



Rifugiati al Campo Profughi di Laterina, provincia di Arezzo

Dove mangiavate? «I muratori del CRP ci costruirono, in mezza giornata, un fornello a legna tutto in cemento. – ha detto Ireneo Giorgini – L'acqua si prendeva alla fontana comune. I servizi igienici erano in fondo al campo. Teniamo presente che queste baracche furono costruite in tempo di guerra, come campo di concentramento per i militari alleati e poi per i militari tedeschi. I primi profughi nel 1945 trovarono ancora il filo spinato che lo cintava. Io, quattordicenne, mi adattai subito. A gennaio ripresi la scuola in Arezzo, insieme ad altri ragazzi e ragazze: Avviamento Professionale, Liceo, Istituto Tecnico Industriale, Ragioneria. Questo per quattro anni. Alcune di queste amicizie le coltivo ancora a Torino con ex ragazzi e ragazze residenti in Toscana».
Come era la giornata tipo al Campo Profughi? «La vita era ben organizzata: mattino scuola! – ha detto Ireneo Giorgini –  Il primo anno, nel 1951, si andava ad Arezzo in treno, poi la corriera fino alla stazione andata e ritorno, servizio pagato dall’Assistenza Post Bellica, libri scolastici compresi. Peccato che a volte gli orari ferroviari non erano coordinati con la corriera per cui si doveva aspettare quello della sera: quattro ore o 5 km a piedi».
E allora come facevate? «Si facevano in allegria quei chilometri tagliando per i prati, i boschi e gli argini dell’Arno. – ha detto Ireneo Giorgini –  Pranzo alle 15.00. E poi a “zogar la bala”, quando c’era il pallone, il più delle volte scalzi su un campo di terra. Lascio immaginare cosa succedeva quando l’alluce incontrava una pietra. Allora di corsa in infermeria a farsi medicare. La signora Virginia, l’infermiera del campo ci rimproverava: “Sempre ‘sta bala. Meté le scarpe!”. “E con cosa andemo a scola: discalzi?” – era la mia risposta».


Ireneo Giorgini, con la mamma Norma Milotich e il babbo Alessandro Juricich, poi Giorgini tra le baracche del Centro Raccolta Profughi di Laterina

C’è qualche altro ricordo? «Il tempo libero per gli adulti era impiegato ad operarsi per rendere più confortevole il soggiorno. Imbiancatura delle camerate, piccoli giardinetti, chi si inventava un orticello chi allevava qualche gallina, chi andava a fare un po’ di spesa nelle fattorie vicine. Noi giovani che si faceva? Giocare per le campagne a fare i bagni in estate nell’Arno, ascoltare la radio, il campionato di calcio, il Giro d'Italia, giocare a scacchi (tanto) e studiare. Poi mi viene in mente che mia mamma, in baracca, canticchiava nelle faccende domestiche e mio papà le domandò: Che ti canti? E lei rispose: Cos ti vol che pianzo?».
Cerano dei passatempi? «Poi c’è stata la scoperta della TV. – ha detto Ireneo Giorgini – In paese un negozio di elettrodomestici, siamo nel 1953, aveva in vetrina il primo televisore. La domenica pomeriggio ci si accalcava davanti alla vetrina, allungando il collo, per vedere la partita mentre la domenica sera, al salone ACLI, si andava a vedere la “Domenica Sportiva. C’era anche il cinema con la proiezione serale. Lì mio padre durante la proiezione di “Te per due”, con Doris Day, mi sorprese con una sigaretta e mi mollò una sberla, per cui tutto il cinema si girò».
Quando vi siete trasferiti a Torino? «Nel 1954 venne il sospirato trasferimento a Torino Casermette di Borgo San Paolo. – ha detto Ireneo Giorgini – Ci trasferimmo in cinque perché nel frattempo nacque mio fratello Roberto. E qui inizia un’altra storia».
Chi racconta è Ireneo Giorgini. Avete inteso che nel 1945 si chiamava Juricich?


Campo Profughi di Laterina, provincia di Arezzo, interno di famiglia

«Arrivati a Torino i due fratelli di mio padre insistettero affinché cambiasse anche lui il cognome per ragioni di coerenza. – ha aggiunto Ireneo Giorgini –  Mio padre acconsentì. Così a Torino ho frequentato la terza ragioneria con il cognome Juricich, mentre in quarta ero: Giorgini. Ma ancora oggi dopo 60 anni i miei ex compagni di scuola mi salutano così: Ciao Juricich».
«Nel 1969 mi sono sposato con una ragazza torinese: Carla – ha concluso Ireneo Giorgini – In viaggio di nozze siamo passati a Laterina. Poi ancora nel 1987 ci siamo ritornati con nostra figlia Emanuela, allora quindicenne. Oggi a Torino sono impegnato con l’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), fasemo la festa de San Nicolò e de San Vito, con un pranzo per oltre 120 persone, gavemo tre chitare e se canta la Mula de Parenzo e tanti altri canti della nostra tradizione».
Campo Profughi di Laterina, provincia di Arezzo, la famiglia Juricich-Giorgini tra la neve

Sul verbo fuggire per i profughi di Fiume
Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova, classe 1925, vuole essere preciso riguardo ai verbi da usare in riferimento all’esodo da Fiume. Il Comune di Laterina ha pubblicato un libro sul Campo Profughi. Il signor Tardivelli vuole criticare l’utilizzo del verbo “fuggire” nelle pagine dedicate alla nostra storia pure in tale pubblicazione. Ad esempio a pag. 9 si legge: “(…) il Campo di Laterina (fu) riattivato nel 1948 e destinato a Campo Profughi per accogliere gli italiani che fuggivano da Fiume, dalla Dalmazia… ecc.”.
Tardivelli contesta così: “Fuggivano: è un verbo caduto sulle nostre teste. Fummo vittime e, in un certo senso, lo siamo ancora oggi. Per il fatto di essere etichettati come fascisti. Oppure perché le nostre donne vennero definite “di malaffare” dalle malelingue, perché eravamo venuti via da quel paese comunista. Il paradiso di Tito!”
Ci sono altre contestazioni, ne scegliamo una che fa riferimento alla pag. 46 della pubblicazione citata: “…i profughi provenienti dalla Venezia Giulia dalla Dalmazia e dal Dodecanneso, ecc.”
Risposta di Tardivelli: “C’era una netta distinzione fra i profughi provenienti dalle varie località! La situazione del popolo degli esuli provenienti dalla Jugoslavia di Tito era che si doveva optare per ritornare ad essere italiano. Pochi sono quelli che riuscirono effettivamente a fuggire, perché non potevano ottenere l’opzione, oppure perché era stata loro respinta. Decine sono le vittime colpite alla schiena, dalle pattuglie della Milizia Popolare, nel tentativo di fuga (questa volta, sì: “fuga”) sulla linea di demarcazione”.
Laterina, provincia di Arezzo, profughi giuliano dalmati al bagno nell'Arno: "Una bela nodadina!"

Ecco l’ultima considerazione. “I nostri racconti coincidono con tutti quelli degli amici e compagni di sventura – scrive Aldo Tardivelli – le tribolazioni, e la vita nei Campi Profughi, il giornaliero vagare per le vie delle città in cerca di lavoro ed in certe zone d’Italia ci veniva rifiutato, perché erano quelli… Allora ci furono coloro che presero la dolorosa scelta di emigrare oltre oceano, che così ci hanno scritto. Sono i pensieri di alcuni amici australiani:
“La disperazione morale sempre più profonda portò alla logica più obiettiva: emigrare! In migliaia gli Esuli decisero di non accettare e rimanere in quell’Italia che avevano tanto amato. E così dovettero trasformarsi in «displaced persons», ossia “senza patria”, quindi “apolidi”, per essere accettati, lasciando alle spalle i ricordi, amici, parenti, città, cultura e l’Italia, pur sapendo che forse non l’avrebbero più rivista, partirono per il Canada, l’Australia, gli U.S.A”.
Profughi d'Istria, di Fiume e Dalmazia in un CRP. Collezione Aldo Tardivelli, esule da Fiume a Genova

Fonte orale e ringraziamenti
Ringrazio per la disponibilità dimostrata nella raccolta delle informazioni il signor Ireneo Giorgini, Fiume 1937, esule a Torino, da me intervistato al telefono il 30 gennaio 2017. Le fotografie del CRP di Laterina risalgono al 1953-1955 e fanno parte della Collezione Ireneo Giorgini di Torino, se non altrimenti precisato.
Per la collaborazione alla ricerca sono riconoscente a Claudio Ausilio, delegato provinciale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) di Arezzo, perché mi ha messo gentilmente in contatto con i signori Giorgini e Tardivelli, preparando il momento dell’intervista.
I contenuti dell’articolo presente sono già apparsi nel web, in una versione giornalistica, sul sito di Valdarnopost del 9 febbraio 2015, col titolo: “La nostra vita nel campo profughi di Laterina. La testimonianza di due esuli”, di Glenda Venturini, che si ringrazia per la gentile concessione alla parziale riproduzione. 

Cenni bibliografici e del web
- Ivo Biagianti (a cura di), Al di là del filo spinato. Prigionieri di guerra e profughi a Laterina (1940-1960), Comune di Laterina, Stampa Centro editoriale toscano, pagg. 163 ; ill., s.d. [ma, 1999-2000?].
- Aldo Tardivelli, “Un filo spinato… non ancora rimosso”, testo videoscritto in formato Word, s.d., p. 1-7.
Sulla confusione dei cognomi, generata da parte slava, si può leggere l’intervista a Flavio Serli di Umago.  Vedi:  Esodo da Umago nel 1961. Cognome straziato (2016), in questo stesso blog.



Fotografia da Internet

sabato 28 gennaio 2017

L’amica ebrea Elena scomparsa e la sinagoga di Fiume, 1944

Vi presento un racconto di Aldo Tardivelli, nato a Fiume nel 1925 ed esule a Genova. Scritto nel 2006, il testo originale si basa sui ricordi di sua moglie, Graziella Superina, deceduta nel 2011. Ho usato il corsivo per indicare l’originale scritto dal signor Tardivelli e il virgolettato per le parole di Graziella Superina, di Tulio Tardivelli, padre di Aldo, o di altre mie testimonianze riportate alla fine di questo racconto straordinario.
Fiume, la sinagoga del 1903. Cartolina da Internet

Attentato alla bellissima sinagoga di Fiume, 1944
Gli uomini delle Waffen SS sono diventati le belve del Terzo Reich – così ha scritto Aldo Tardivelli –. Ecco un racconto dedicato a noi più grandi e ai giovani, che non hanno conosciuto questa storia. Descriverò un popolo di cittadini esemplari ai quali non è stata data la possibilità di vivere in pace nelle terra natale.
«Era il 14 Settembre del 1943 – diceva Graziella Superina – quando l’occupatore nazista s’impadronì della città di Fiume. Dopo pochi mesi decretò, il 25 Gennaio 1944, non solo la distruzione della bellissima sinagoga (1902 – 1944), ma anche quella del popolo di religione ebraica. La morte per mezzo della dinamite e del fuoco distrusse totalmente l’edificio di culto e la deportazione nei Campi di sterminio colpì i suoi fedeli.
Quel giorno di gennaio sentimmo un forte odore acre di bruciato.  Un fumo scuro si levava da una parte della città. Non avevamo sentito né la sirena dell’allarme aereo, né quella dei pompieri, che avevano la caserma di fronte a casa nostra, ma qualche cosa di grave doveva essere successo.
Per la strada c’era gente allarmata e si sparse la voce che aveva preso fuoco “la casa degli ebrei”.
In un primo momento sembrò che si trattasse di una disgrazia – ha spiegato Graziella Superina – ma poco dopo si seppe che già da Via Parini la strada era stata bloccata dalle Waffen SS.
Appare allora in tutta la drammaticità, una situazione inaspettata – affermava Graziella Superina – la sinagoga era stata data alle fiamme dai tedeschi, con un attentato. Qualcuno assicurava che nella “casa degli ebrei” si complottava contro i tedeschi.  Altri dicevano che lì doveva esserci una stazione radio che comunicava al nemico gli obiettivi da colpire a Fiume con i bombardamenti.  Altri sostenevano che lì i partigiani ci nascondevano armi e gli esplosivi per gli attentati. Sembrava strano che proprio in quel luogo simile fosse stato opportuno nascondere roba del genere».
Fiume, Calle del Volto, a cura del Libero Comune di Fiume in Esilio. Collezione Carlo Leopoldo Conighi, esule da Fiume; Udine.

Gli ebrei a Fiume dal XV secolo
Ricordo ancora com’era la loro splendente sinagoga – ha aggiunto Aldo Tardivelli – raccontando, con le parole di Graziella, la sua storia e di quella comunità, che pacificamente viveva nella mia città:
«La presenza della comunità ebraica nella città di Fiume si era già notata sin dal XV Secolo, si trattava di gruppi di commercianti provenienti dall'altra sponda dell'Adriatico, specie dalle Marche.
A Fiume, nei tempi passati, la comunità ebraica non poteva abitare ovunque pertanto si erano appartati in una piccola zona della Cittàvecchia, nella Giudecca. Solo dopo, dal 1781 in poi, con una legge emanata dall'Imperatore Giuseppe II, la "Libertà di culto" si estese con uguaglianza per tutti i residenti nella città.
La prima Sinagoga che intendevano costruire non ebbe molta fortuna – ha continuato Graziella Superina – Le difficoltà erano insormontabili e così le funzioni sacre, e l’insegnamento della dottrina ebraica continuavano a svolgersi in case private.
Il terreno che il Municipio aveva riservato per la costruzione del tempio non era certo dei più felici incassato com’era fra un palazzo ed un bivio di strade circostanti di Via Parini, ma fu risolto energicamente dall’architetto. Eravamo nel 1890, quando quella moltitudine d’ebrei fiumani aveva dato inizio alla raccolta d’offerta di denaro per l'acquisto di un terreno e la costruzione del Tempio che doveva essere abbastanza grande, perché ospitasse all’interno quella numerosa comunità ebraica fiumana di duemila anime. Quei fondi raccolti non bastavano al compimento dell’opera bisognava reperibili altrove, rivolgendosi alle altre comunità religiose che offrirono denaro, e così fecero alcune banche, privati cittadini e il Governatore che elargisce la bella somma di duemila corone dalla cassa personale. Un contributo notevole di tutta la cittadinanza fiumana.
L’edificio era di squisita fattura. Era pittoresco – prosegue il racconto – per il contrasto dei materiali usati, il rosso e il bianco facevano di quest’edificio una presenza originale e armoniosa con quattro piccole cupole sugli angoli, e una centrale di forma quadrangolare. Solo dopo avere atteso tanto tempo, con immani sacrifici e privazioni i lavori per l’edificazione del Tempio iniziati nell’autunno del 1902, furono ultimati nel 1903 e la comunità poté festeggiare il loro primo Capodanno nel Tempio».
Graziella Superina. Collezione Aldo Tardivelli, Genova

La comunità ebraica fiumana – ha scritto Aldo Tardivelli – diventata ormai parte integrante della cittadinanza poteva abitare in ogni luogo. Si dedicarono al commercio, all’artigianato, aprirono negozi d’abbigliamento, mobilio, tappeti e articoli per l’arredamento della casa. Sono stati i primi commercianti che hanno agevolato i cittadini ad acquistare ratealmente le merci, con un contratto basato sulla reciproca fiducia.
Il racconto di Graziella Superina continua così: «Avevo tante amiche che frequentavano la stessa classe della scuola elementare “Dante Alighieri”. Una fra queste, Elena, compagna di banco e di giochi. Il più delle volte, durante la sosta delle lezioni nell’ora della ricreazione mi offriva una parte della sua merenda, che era un po’ più sostanziosa della mia. Le lezioni in classe procedevano regolarmente fino l’ora della religione cattolica, quando la mia (povera) amica doveva uscire dalla classe e attendere, in solitudine, nel corridoio la fine della lezione».
Purtroppo, in quel tempo lontano, la discriminazione razziale contro il popolo ebraico si era manifestata in modo subdolo da parte di alcuni individui che si ritenevano superiori – ha commentato Aldo Tardivelli – tutto, fatalmente… oggi, potrebbe ricominciare come sempre?

L’interno della sinagoga secondo Tulio Tardivelli
Ancora oggi quella Sinagoga mi ricorda mio padre Tulio – ha aggiunto Aldo Tardivelli – con la sua voce piacevole aveva incominciato a raccontare una storia curiosa, che iniziava così:
«Ero entrato per curiosare e osservare da vicino l’interno di quell’edificio del culto ebraico. Arrivato d'innanzi al portone mi ero tolto il cappello e il custode del Tempio, con gentilezza, aveva fatto presente che si poteva entrare solo con il capo coperto. All’interno del Tempio il mio papà si era trovato d’innanzi a ad uno spazio unico, la zona del culto rialzata come in una delle nostre chiese, divisa dal resto del Tempio da una grata di ferro battuto con ai lati le “menorah”, i "candelabri a sette braccia", e aldilà nell’interno i seggi per il rito del "Torah", i cinque libri che contenevano la "Rivelazione". La bellezza dell’interno l’aveva colpito notando i colori appariscenti e dominanti, come l’azzurro della sotto-cupola trapuntata di piccole stelle dorate, il rosa dei marmi delle colonne che sostenevano la galleria riservata alle donne e su, in alto, lo splendore dell’oro dei capitelli».
La storia raccontata da mio padre Tulio volgeva al termine, mentre un’altra storia drammatica, molti anni dopo, si sarebbe abbattuta come un uragano con l’eliminazione fisica di quasi tutta la comunità ebraica fiumana per opera dei nazisti delle SS.
La repressione nei confronti dei cittadini di religione ebraica si era manifestata particolarmente virulenta. Non avevano provveduto in tempo a salvarsi dalla cattura, e noi, inermi, avevamo dovuto assistere con profonda vergogna a tale misfatto.

Rastrellamento di ebrei di Fiume
Nel silenzio della notte udivamo i passi ferrati delle truppe speciali Waffen SS che, con rastrellamenti casa per casa catturavano i nostri concittadini. Riconobbi immediatamente le uniformi delle Waffen SS e le parole di comando che scandivano: “Alles raus”, tutti fuori. Oppure: “schnell, schnell”, avanti, avanti a quel glorioso equipaggio di prigionieri ebrei, uomini, donne, vecchi e bambini erano colpiti dai calci dei fucili sulla schiena, mentre uscivano dalle loro abitazioni e scendendo di corsa nella strada, portando con sé i loro miseri bagagli. Lungo la strada i soldati tedeschi avevano al guinzaglio dei grossi cani che ogni tanto lanciavano un latrato in mezzo a quella colonna di disperati, furono percossi in modo brutale facendoli entrare a spintoni su dei carri merci adibiti al carico del bestiame, li contavano e quando il carro era pieno lo chiudevano come se dentro ci fossero dei sacchi invece che degli esseri umani... i beni di tutti e di coloro che non erano riusciti a fuggire furono confiscati.
Fiume, la sinagoga bruciata dai nazisti nel 1944

Con rapidità! I loro nomi, molto conosciuti da tutti, si diffusero di bocca in bocca per tutta la città:
“Dio mio, Dio mio, ma cosa fanno ai quei poveri Ebrei – diceva la gente di Fiume – ma cosa possono aver fatto di brutto quelle persone che conoscevo come brava gente, Va bene sono ebrei e che è di male? A Fiume gli Ebrei erano da sempre!”
Eravamo stupiti, costernati, avendo saputo che anche il mobiliere dal quale mio padre aveva acquistato, anni prima, i mobili della sala da pranzo, “la Bella Ebrea” che aveva il più fornito negozio di mercerie della città, nei pressi della stazione Principe, tutta gente bene educata, gentile, era stato obbligato con la famiglia a salire nei vagoni ferroviari, nel  posto degli animali.
Dove conducevano i tedeschi quella povera gente? All’alba i nostri concittadini sarebbero spariti per sempre!
Lo venimmo a sapere alla fine della guerra. Erano stati avviati alla morte nel Campo di sterminio di Aushwitz, di Dachau ed altri luoghi di eliminazione.
Con l’invasione nazista dell’Europa, i Campi di concentramento si affollarono di prigionieri di varie nazionalità. Fra i reclusi c’era anche una moltitudine d’ebrei fiumani e l’inizio di un doloroso cammino verso i campi della morte! Una persecuzione, la più orribile dei crimini commessi nel corso della storia umana durante la Seconda Guerra Mondiale.
Quelli che avranno la fortuna di tornare a casa cercheranno invano di ritrovare i luoghi che un tempo erano famigliari, vedere che la loro Sinagoga non esisteva più, perché era stata distrutta dai nazisti, subito dopo la cattura. La cosa più terribile sarà di non riuscire a ricordare bene il significato della vita trascorsa, ma appena le circostanze in cui si è svolta. Tenteranno penosamente di raccontare soltanto particolari sconnessi della vita, e tutto confuso nel ricordare quel che è già svanito nella memoria. È stato come un popolo di “larve umane” che furono costrette a vivere come bestie braccate. Essi  non potranno tornare più come prima.
Purtroppo, e con sicurezza, temo, che fra gli ebrei scomparsi per sempre, ci sarà stata, certamente, anche l’amica Elena. Sarà andata ad infoltire l’elenco, incredibilmente lungo, di altre migliaia d’infelici della nostra città, a trovare la morte. Un martirio più cruento della storia, che ancora oggi, nell’anno 2006, si ha il dovere di ricordare. Con amarezza.
 I nostri padri, compilatori di codici, per giudicare alla fine del conflitto, non avevano neppure lontanamente immaginato che in Germania sarebbero un giorno avvenute stragi in massa e si sarebbe fatto del genocidio un’istituzione!
Solo recentemente, ma sono passati tanti anni dalla fine della guerra, si è scoperto l’italiano commissario Giovanni Palatucci, nato ad Avellino il 31maggio 1909, funzionario di polizia che da 1939 al 1944, a Fiume, riuscì a salvare migliaia di ebrei, ed altre etnie in transito nella Città, destinati ai campi di sterminio nella Germania nazista.
Pur potendosi mettere in salvo, Palatucci continuò la sua missione fino all’arresto e alla deportazione nel “Campo di stermino di Dachau, dove morì il 10 febbraio 1945.
Fin qui il racconto di Aldo Tardivelli, basato sui ricordi della moglie Graziella Superina e del babbo Tulio Tardivelli.
Giovanni Palatucci. Fotografia da Internet

Altre testimonianze sugli ebrei di Fiume
Un’altra fonte orale, nelle ricerche scolastiche, ha riferito i ricordi della sua famiglia. È il professor Ezio Cragnolini, nato a Gemona del Friuli (UD) nel 1955, da me e dagli allievi intervistato il 28 novembre 2007. «Mia madre – ha detto Cragnolini – raccontava di certi treni carichi di gente, che si lamentava nei carri bestiame fermi in stazione a Gemona e lei assieme ad altri gemonesi davano un po’ di uva e un po’ di frutta dai finestrini a quei poveretti (ebrei di Fiume?), che erano italiani».
La prima persona che mi parlò di una retata nazista nel quartiere ebraico di Fiume, in realtà mi stava raccontando i fatti dell’esodo degli italiani dalla città del Quarnaro, dopo il giorno 8 settembre 1943. Con questa digressione ebbi conferma che la Shoah passò per Udine, Gemona e Tarvisio. «I tedeschi presero donne, bambini ed anziani – ha detto la signora N.C. – e li portarono via con i camion. Nei giorni successivi altri camion e uomini in divisa per caricare mobili, merci ed ogni cosa. Si portarono via tutto, non lasciarono neanche uno spillo». Si può vedere, in merito, una lettera alla redazione di un quotidiano: E. Varutti, “Fiume 1943”, «Il Manifesto», 5 luglio 2001.
Fiume, Torre civica, disegno di G. Garavaglia. Settimo raduno nazionale dei Fiumani, Genova 27-28 settembre 1969. Collezione Carlo Leopoldo Conighi, esule da Fiume; Udine.

La sinagoga moresca di Fiume, 1903
Ricordo, infine, che fu l’ingegnere Carlo Alessandro Conighi a costruire la sinagoga di Fiume, nel 1902-1903, secondo il progetto del celebre architetto ungherese Leopold Baumhorn, specializzato nella costruzione di sinagoghe monumentali. La costruzione, iniziata nel 1902, si concluse l’anno successivo ad opera dell’impresa dell’ingegnere di Fiume Carlo Alessandro Conighi. Il luogo di culto ebraico fu solennemente inaugurato il 22 ottobre 1903. Baumhorn scelse uno stile eclettico per gli esterni, dove si intercalano più stili: il Neo-bizantino, il Neo-moresco e la Sezession del Carnaro, mentre l’interno fu più chiaramente improntato alle forme neo-moresche.
Il cronista del «Piccolo della Sera», nel 1933, riferendosi all’impresa edile di Carlo Alessandro Conighi, scrive, tra l’altro: “A Fiume costruì innumerevoli edifici tra i quali il Palazzo del Governo Marittimo (1884)… il Tempio israelitico”.
È in un numero de «L’Arena di Pola» del 2014 che si trova pure la notizia sulla costruzione della sinagoga affidata all’impresa dell’ingegnere fiumano Carlo Conighi.

Anche Rina Brumini descrive la sinagoga di Fiume: “Il nuovo tempio fu eretto dall’ingegnere fiumano Carlo Conighi” (p. 97). La stessa autrice cita i seguenti cognomi di ebrei sefarditi (iberici): Piazza, Valenzin, Cohen, Pardo, Jesurum, Bemporath, Penso, Ventura e Mondolfo. Il panorama mutò nel sec. XIX quando si aggiunsero le famiglie askenazite (del Centro Europa): Eisner, Reizner, Wilhelm, Rosemberg, Hering, Kelner, ma anche Russi, Mortara, Pincherle e Treves (p 98).

Carlo Alessandro Conighi. Disegno di Gino Leoni, 1926. Collezione Carlo Leopoldo Conighi, esule da Fiume. Udine.
                                             
Fonti orali e ringraziamenti
Ringrazio per la disponibilità dimostrata nella raccolta delle informazioni il signor Aldo Tardivelli, esule fiumano a Genova. Sono riconoscente alle altre persone intervistate per la sensibilità dimostrata nell’indagine storica. Le interviste sono state effettuate a Udine da Elio Varutti, con penna, taccuino e macchina fotografica, se non altrimenti indicato. Le fotografie sono della Collezione Aldo Tardivelli di Genova, se non altrimenti precisato.
Per la collaborazione alla ricerca sono riconoscente a Claudio Ausilio, delegato provinciale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) di Arezzo, perché mi ha messo gentilmente in contatto col signor Tardivelli, preparando il momento dell’intervista.
- Signora N. C., (Udine 1926 - 2015), visse a Fiume e a Udine, intervista del 24 febbraio 1996 e del 15 novembre 2005.
- Ezio Cragnolini, Gemona del Friuli, provincia di Udine 1955, int. del 28 novembre 2007.
- Aldo Tardivelli, Fiume il 20 settembre 1925, esule a Genova, int. telefonica e per e-mail nel periodo 20-27 gennaio 2017, con la collaborazione di Claudio Ausilio.

Carpetta di studio intestata, 1884-1930. Collezione Carlo Leopoldo Conighi, esule da Fiume. Udine

Collezioni private
- Collezione Carlo Leopoldo Conighi, esule da Fiume. Udine.
- Collezione Aldo Tardivelli, Genova.

Riferimenti bibliografici
- «Arena di Pola» - Rassegna stampa n. 904 del 01/02/2014.
- Rina Brumini, “Gli Ebrei di Fiume”, «La battana», rivista trimestrale di cultura, Fiume / Rijeka (Croazia), XLV, ottobre-dicembre 2008, pp. 83-116.
- “L’opera e la fede di Carlo Conighi”, «Il Piccolo della Sera», XI, N.S., n. 4114, Trieste, 25 febbraio 1933, Anno XI, p.1.
- Aldo Tardivelli, “Un’amica ebrea”, testo videoscritto in formato Word, 2006, p. 1-5.
- E. Varutti, “Fiume 1943”, «Il Manifesto», 5 luglio 2001.
Fiume, Via Giuseppe Verdi. Collezione Carlo Leopoldo Conighi, esule da Fiume; Udine.