sabato 30 aprile 2016

L’agonia di Toni, Dignano d’Istria 1944

Morire di botte legato ad un albero. È successo per mano dei fascisti repubblichini a Antonio Franco, vigile urbano di Dignano d’Istria, ritrovato cadavere irriconoscibile nel 1944. Era come nel sogno premonitore di sua moglie Filomena Marin, che continuava ad andare dal podestà a dirgli di cercare il marito, sparito nel nulla. «Signor podestà, diceva mia mamma disperata, me lo sogno tutte le notti el xe morto nel bosco degli ulivi racconta Evelina Franco, figlia di Toni   Il podestà ripeteva sempre lo stesso ritornello e tentava di rassicurala con queste parole: Ma no, signora, sarà andà in bosco coi partigiani».
 
Sebastiano Pio Zucchiatti, Suggestioni su Calle Nova a Dignano d'Istria, elaborazione al computer, stampa acquerellata, gouache e pastelli su carta, cm 18 x 21, 2016 - da una fotografia di C. Stincich di Pola 1907. 
Un altro bravo fotografo di Dignano d'Istria fu Francesco Giachin, attivo negli anni 1930-1937.

Invece Antonio Franco, vigile di Dignano d’Istria conosciuto e stimato da molti paesani, era proprio penzolante da un olivo, sfigurato, massacrato di legnate, con gli abiti laceri. «Adesso so perché il podestà non voleva fare le ricerche – continua la testimonianza – passati tre mesi dalla sua scomparsa è stato trovato da chi andava a fare erba per i conigli e fu avvisato il paese. Certi paesani andarono sul luogo del supplizio. Mio fratello Libero, nato nel 1932, non lo riconobbe, continuava a ripetere: No, no xe papà».
Allora, come è stato riconosciuto?
«Mia mamma si ricordava che ad un alluce di papà mancava l’unghia, persa durante la naia e mai più ricresciuta bene – aggiunge la signora Evelina Franco – poi ha detto a chi è andato nel bosco degli ulivi a recuperare quel cadavere: Guardate in bocca, perché Toni ha due denti d’oro». Fu in questo modo sconvolgente che fu identificata la guardia Antonio Franco di Dignano d’Istria, nonostante i capelli allungati e i pantaloni blu sbiaditi, per essere stato esposto al sole e alle intemperie, dopo le strazianti torture. «A quell’epoca mio padre era un’autorità importante – spiega la signora Franco – ma non voleva essere comunista, né repubblichino».
Avete trovato i colpevoli delle sevizie mortali?
«Saputa la notizia dell’identificazione, mia madre era svenuta – continua Evelina Franco – poi tutto il paese si strinse vicino a lei per il cordoglio, perché mio papà era una persona giusta, in gamba e benvoluta da tutti. Il suo corpo martoriato fu esposto su un balcone in piazza e i partigiani, che nel frattempo avevano preso il paese, fecero un processo e i due assassini alla fine hanno confessato».
Successe tutto dopo l’8 settembre 1943. Avete capito come mai fu torturato e ucciso a percosse?
«In quei mesi c’era confusione – spiega la signora Evelina  – c’era molto odio, poi c’erano le uccisioni nelle foibe, ammazzavano per dei rancori, mio padre ripeto era un’autorità importante e non voleva essere comunista, né repubblichino».
 
Domande sull'esodo istriano, testo predisposto dagli allievi della classe 2^ E alberghiero dell'Istituto "B. Stringher" di Udine, con la guida di Anna Ghersani Durini, insegnante di Storia, 2016

Dopo la guerra avete affrontato anche voi l’esodo?
«Scappati da Dignano d’Istria, siamo partiti da Pola – riferisce la testimone – nel  mese di febbraio del 1947, col piroscafo Toscana fino alla città di Ancona, perché nonna Filomena Marin, disperata, continuava a dire a mia madre: Cosa farai adesso che sei vedova con tre figli?».
Sa, per caso, come si chiamava la madre di nonna Filomena, cioè la sua bisnonna?
«Sì, me lo ricordo bene, era Filomena pure lei e, per giunta, figlia ancora di una Filomena – aggiunge Evelina Franco – perché mia mamma mi raccontava sempre che la levatrice di Dignano, quando sono nata io, nel 1935, disse a mia madre: Non sta ciamarla Filomena, eh!».
Allora, con la nave arrivate ad Ancona e lì vi hanno portato in un Campo Profughi?
«Ricordo che ad Ancona ci hanno accolto le crocerossine – riferisce la signora Evelina Franco – col latte e la cioccolata calda, poi ci portarono in treno a Rovigo, stavamo in una palestra, coi materassi per terra, per tre giorni siamo stati lì, era scomodo, tutti insieme maschi, femmine e bambini, poi le donne si lamentavano, perché non potevano lavarsi in tranquillità, per fortuna un conoscente, il padrino di mio fratello, ci ha portato da lui, avevano campagna con i coloni, ma mio fratello non c’era perché sul piroscafo un prete raccoglieva i ragazzi per portarli in un collegio per orfani di profughi a Oderzo, in provincia di Treviso, ma mio fratello Libero, dopo tre anni passati lì, scappò dal collegio e arrivò da noi, ma non lo riconoscevamo perché era cresciuto tanto e poi era magro come un chiodo».
Insomma avete trovato una sistemazione a Rovigo…
«Un po’ di anni più tardi – aggiunge la signora Evelina Franco – mia madre trovò una casa a Bellombra, in provincia di Rovigo, mentre mia sorella Ida, nata nel 1938 a Dignano, ed io abbiamo trovato lavoro presso le suore e il fratello Libero continuava a lavorare da agricoltore presso il suo santolo, cioè il padrino. Da Torino, città di esilio di Bonetta Franco, sorella di mio papà, la zia Bonetta diceva sempre a mia mamma di andare tutti a Torino, perché là potevamo cambiare vita. Dopo molte insistenze siamo partiti per Torino in treno. Essendo profughi di guerra e profughi giuliani, mio fratello Libero ha trovato lavoro alla Fiat, mia sorella Ida in una fabbrica di piastrelle ed io in un laboratorio di maglieria. Ci siamo così sistemati».


Materiali grigi sull'esodo istriano, scheda di intervista somministrata da Davide L. alla signora Evelina Franco (sua nonna), esule a Torino, correzioni e cancellature a cura degli allievi della classe 2^ E alberghiero dell'Istituto "B. Stringher" di Udine, con la guida di Anna Ghersani Durini, insegnante di Storia, 2016

Anche questa è storia d’Italia, secondo lei?
«Sì, bisogna sapere queste cose – dice la signora Evelina Franco – adesso possiamo parlare, raccontare e ricordare questi fatti e chiedo solo rispetto per i nostri morti».
Qualcuno dei suoi partenti è rimasto a Dignano d’Istria, dopo il 1945-1947?
«Sì, mio cugino Vittorio Marin è rimasto là – conclude la signora Franco – ma è morto un po’ di anni fa, i Marin avevano campagna, olivi e vino, prima della guerra».
Vorrebbe tornare a Dignano d’Istria?
«No».
È ritornata qualche volta in Istria e le è piaciuto ritornare là?
«Sono ritornata, ma non mi è piaciuto, perché è tutto diverso».
Preferisce Dignano d’Istria, oppure Torino?
«Torino».

 
Sebastiano Pio Zucchiatti, Nuvola scura sopra Piazza Italia a Dignano d'Istria, elaborazione al computer, stampa acquerellata, gouache e pastelli su carta, cm 20 x 20,50, 2016. 
Da una fotografia del 1930.

1.   Il santo co la bareta rossa
Da un’altra fonte orale si viene a sapere una storia tutta particolare e al limite del ridicolo. Nella chiesa di Dignano d’Istria era d’uso, durante la processione interna, cantare le litanie e pregare i santi davanti agli altari, alle immagini e alle statue. Però di un santo non si sapeva proprio il nome. C’era la statua, ma si era persa la sua denominazione, nonostante il copricapo rosso che portava. Così il popolo devoto cantava: «Che sia quel santo che sia co la bareta rossa». Le notizie di questa originale cultura popolare dei santi di Dignano d’Istria sono state riferite dai discendenti di Iris D.P., nata a Pola nel 1921.

Il mistero del “Santo co la bareta rossa”
Il “santo co la bareta rossa” è con tutta probabilità un beato, morto nel 1207. Il riferimento bibliografico è il seguente: Mons. Antonio Conte, Guida al Duomo e alle chiese dignanesi, Torino, Famiglia Dignanese, 2006.
Si tratta di beato Leone Bembo, di nobile famiglia veneziana, che fu vescovo di Modone (Methoni), nella Morea o Peloponneso, sottoposto alla Repubblica di Venezia. Egli è raffigurato non in una statua (come accennato dalla fonte orale), ma su una tavola dipinta in stile bizantino su sfondo dorato, da Paolo Veneziano, nel secolo XIV. Tale opera, menzionata come il Trittico di Beato Leone Bembo, era appesa alla parete sinistra del presbiterio del duomo di Dignano.
L’intitolazione e l’attribuzione furono incerte sino oltre il primo quarto del Novecento. Abbellimenti e cure del duomo sono successivi al 1926. Ecco come si spiega la non conoscenza popolare dei devoti cristiani di Dignano, poco prima e poco dopo la Grande Guerra, cui si fa riferimento nella fonte orale.
Si sa che certe reliquie e alcune opere d’arte furono portate a Dignano, nel 1818, dal pittore veronese Gaetano Grezler (el sior Gaetano), chiamato a decorare il nuovo duomo, consacrato nel 1808, in seguito al crollo di quello precedente. Antonio Alisi, in Istria: città minori, scrive che, dopo la furia di Napoleone, a Venezia furono distrutti il convento di San Lorenzo e la chiesetta di San Sebastiano, tanto che Gaetano Grezler comprò alcune reliquie (mummie), come quelle di beato Leone Bembo e di prete Giovani Olini, oltre ad altari, pitture ed altri oggetti. Già sul cognome di quest’altro religioso ci fu confusione nell’Ottocento, dato che egli figura in un catartico come: «b. Joannes olim presbiter-plebanus». Gli studiosi di tradizione veneziana, avendo letto male la parola “olim” (= una volta), la interpretarono come un cognome di famiglia: “Olini” (Conte, pag. 42).
Si pensi che nel 1909 la pittura del Trittico di Beato Leone Bembo – come scrive l’Alisi – stava rovesciata in sacristia, appoggiata su dei cavalletti ad uso tavolo per smoccolar candele o per sistemare i materiali di adornamento degli altari. In seguito fu appeso in chiesa, senza sapere molto su di esso.
Il Trittico di Beato Leone Bembo è il quadro più antico del duomo. Il dipinto è diviso il tre parti. La figura centrale è quella del beato, raffigurato in piedi ricoperto da una tunica talare scura sulla quale si evidenzia un mantello fulvo aperto sulla destra e allacciato sulla spalla. Intorno al collo – scrive il Rismondo nel suo Dignano d’Istria nei ricordi, pag. 167 – il beato ha una breve mozzetta di pelle nera, alluso greco. Ciò fa spiccare con maggiore chiarezza la testa e il mento barbuto. Sul capo, cinto di aureola d’oro, porta una cuffia bianca per cingere i capelli arruffati e sopra questa sta un’altra cremisina simile a una calotta. Poi la descrizione iconografica procede con tanti altri particolari. Dunque la cuffia cremisina simile a una calotta è proprio la “bareta rossa” del popolino devoto.
Persino i dati anagrafici dei beati in questione non sono definiti. Ogni autore sembra fare a gara per smentire quelli precedenti. Tale confusione tra gli esperti provocò una ignoranza nel popolo, che scelse di onorare comunque la reliquia e la pittura di Dignano nelle litanie col canto: «Che sia quel santo che sia co la bareta rossa».


Riferimenti bibliografici. Mons. Antonio Conte, Guida al Duomo e alle chiese dignanesi, Torino, Famiglia Dignanese, 2006, pagg. 33-36.

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Ringraziamenti
Ringrazio, per avermi concesso l’intervista, la signora Evelina Franco, nata a Dignano d’Istria nel 1935 ed esule a Torino, da me ascoltata al telefono il 28 aprile 2016. Sono riconoscente a suo nipote Davide L., studente della classe 2^ E alberghiero, presso l’Istituto “B. Stringher” di Udine, dove con la conduzione della professoressa di Storia Anna Ghersani Durini, è stata sviluppata una ricerca sull’esodo giuliano dalmata nella primavera 2016, nell’ambito del Piano dell’Offerta Formativa, con interviste alla nonna Evelina Franco.   
Per la storia religiosa del «Santo co la bareta rossa» sono grato a Gabriele D.C., nato a Venezia nel 1947, discendente dei Bunder di Dignano d’Istria, da me intervistato a Udine il 23 aprile 2016. 
Per i disegni di questo articolo ringrazio l'autore.
Sono riconoscente a Giorgio Gorlato, esule da Dignano d’Istria, che ha cortesemente messo a disposizione delle mie ricerche la collezione di 300 cartoline d’epoca riprodotta da Piero Delbello (a cura di), Saluti dall’Istria e da Fiume, Edizioni Svevo, Trieste, con gli auspici di: Unione degli Istriani, Associazione delle Comunità Istriane, Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) di Trieste.
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Ricerche personali ragionate
Mi è capitato di raccogliere varie testimonianze riguardo a Dignano d’Istria, che qui mi permetto di ricordare per il lettore incuriosito. 
1)      Maria Chialich, nata a Dignano d’Istria nel 1919 e morta a Udine nel 2010 assieme ai suoi discendenti ha vissuto la vicenda più tragica, dato che ebbero ben sette familiari uccisi e gettati nella foiba dai miliziani di Tito. Si veda in questo stesso blog il paragrafo n. 2, intitolato “Una famiglia, sette infoibati” nell’articolo seguente: Scappare dall’Istria via pel mondo, 1943.
2)      Giorgio e Daria Gorlato persero il padre Giovanni, notaio di Dignano d’Istria, ucciso dai titini. Vedi il saggio: “Ospiti di gente varia. Cosacchi, esuli giuliano dalmati e il Centro di Smistamento Profughi di Udine 1943-1960”, del 2015.
3)      Armando Delzotto, detto “Terere” ha scritto un memoriale di ricordi su Dignano d’Istria, intitolato “I miei ricordi di Dignano d’Istria (dalla nascita all’esodo), edizioni del Sale, Udine, 2014. Vedi l’articolo: “ANVGD Udine, Memoriale di Delzotto sull’esodo istriano”.
4)      Maria Giovanna Copic, nata a Tarvisio, provincia di Udine, nel 1950, ricorda lo zio Pino Iursich, che con la moglie Celestina di Portole gestivano un forno e una trattoria a Dignano d’Istria, fino alla fuga alla volta di Trieste, presso parenti (int. del 30 gennaio 2004).
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Lettera di ringraziamento alla intervistata della classe 2^ E alberghiero, dell'Istituto “B. Stringher” di Udine, con la conduzione della professoressa di Storia Anna Ghersani Durini
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Questo articolo rientra nelle attività del Centro di ricerca, documentazione e produzione culturale sull’esodo giuliano dalmata, per raccogliere, testi, documenti, interviste e fotografie di quei particolari momenti storici. Il Centro di ricerca è sorto all’interno del Laboratorio di storia dell’Istituto Stringher di Udine, di cui è referente il professor Giancarlo Martina.  È parte del progetto, sostenuto dalla Fondazione Crup, “Storie di donne del ‘900”, che  ha ottenuto, tra gli altri, il patrocinio di: Provincia di Udine, Comune di Udine, Club UNESCO di Udine, Società Filologica Friulana, ANED, ANVGD di Udine.

venerdì 29 aprile 2016

Toni Capuozzo a Udine, col CIRF

Sembra una contraddizione, eppure cercare alcuni sprazzi di umanità in un conflitto è un’opera avviata da un progetto educativo lanciato a Udine nel 2011. Se ne è parlato all’Università di Udine in una ghiotta occasione culturale, visto che l’ospite principale è stato il cronista di guerra Toni Capuozzo, laureato in sociologia, friulano di nascita, visto che è nato in quel di Palmanova, con la mamma esule da Fiume, città italiana del Carnaro, dal 1924 al 1945.

Toni Capuozzo a Palazzo Garzolini (di Toppo Wassermann), Udine il 21 aprile 2016.  Fotografia di Elio Varutti

«Il progetto Umanità dentro la guerra è di una singolarità preziosa – ha detto Toni Capuozzo – perché è contro corrente infatti, sui conflitti, molti come me, sono i pessimisti». Ha concluso così il noto giornalista di TG 5 le due importanti iniziative organizzate dal Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Cultura e la Lingua del Friuli (Cirf) dell’Università di Udine. Gli appuntamenti culturali si sono svolti a Udine presso Palazzo Garzolini (di Toppo Wassermann) di Via Gemona 92. 
L’occasione degli incontri sul tema “Friuli terra di confini (1866-2016)” è stata fornita il 21 aprile 2016 dal professor Paolo Pascolo, direttore del Cirf. Nel primo incontro, definito conferenza stampa, sono stati presentati i prossimi appuntamenti che inizieranno con “La scelta”, una pièce teatrale di Stefano Menis, ispirata al memoriale di Ferdinando Pascolo “Silla”, intitolato “Che strano ragazzo, dalla sacca del Don al carcere repubblichino per una nuova Italia”, Aviani & Aviani editori, Udine 2013. «Il secondo evento che stiamo allestendo – ha aggiunto Pascolo – è dedicato alla storia dei confini labili attraverso il francobollo e le lettere dal fronte».
Verso le ore 16,40 il professor Pascolo ha aperto il convegno intitolato “Cronaca e memorialistica per capire la storia”, illustrando il progetto Umanità dentro la guerra, sorto dal libro scritto da suo padre, soldato in Russia e poi partigiano in Friuli.
La professoressa Anna Maria Zilli, Dirigente scolastico dell’Istituto Statale d’Istruzione Superiore “B. Stringer” di Udine, ideatrice del progetto Umanità dentro la guerra, ha spiegato i motivi che hanno fatto nascere sin dal 2011 l’originale attività didattica, ampliatasi nel tempo. «La mia relazione si incentra sul modo di insegnare la storia – ha detto Zilli – non solo con i manuali, ma con le attività dei Laboratori di Storia nelle scuole secondarie intesi come luoghi per esplorare le fonti e nuovi mezzi, poiché la competenza è collegata alla consapevolezza». 
Poi la professoressa Zilli ha spiegato le tappe fondamentali del progetto Umanità dentro la guerra, col coinvolgimento di varie istituzioni «e persino, come è successo quest’anno – ha concluso Zilli – sviluppando rapporti transnazionali, che hanno visto la partecipazione del console austriaco, di quello sloveno e di una delegazione scolastica di Villaco al Teatro Giovanni da Udine lo scorso 17 marzo, per la Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera».  


Ha concluso i lavori del convegno Toni Capuozzo, parlando a braccio delle numerose guerre di cui è stato cronista, dai Balcani, alle Falkland, al Medio Oriente. 
Il pubblico ne è rimasto stregato non accorgendosi che erano appena stati sfiorati i temi in programma. Il titolo del suo intervento, infatti, era: “Può la cronaca scandire il ritmo della storia? I casi: Fusilâz, Regeni, Piano e Failla, Marò”. 
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Una versione di questo articolo è stata pubblicata il 29 aprile 2016 sul giornale web  infofvg.it  sotto il titolo: "Toni Capuozzo a Udine, per Umanità dentro la guerra".


mercoledì 27 aprile 2016

Bepi, missionario in Burundi

Andava forte la Lega Missionaria Studentesca a Udine negli anni 1960-1970. Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta del Novecento mi trovai coinvolto pure io. Fu un cineforum ad attirarmi, con dei film documentari sullo sfruttamento in Africa che nemmeno il ragionier Fantozzi saprebbe meglio commentare, tanto erano brutti. Facevano vedere situazioni brutte, sporche e cattive. E si doveva intuire che la colpa era del neocolonialismo.

Il sotterraneo del seminario, in Viale Ungheria, dove si tenevano le proiezioni era stracolmo di ragazzi e di ragazze. Si proveniva da varie parrocchie. C’era quasi una forma di campanilismo tra di noi. “Noi del Carmine siamo più di voi – diceva qualcuno – che siete di San Rocco”. Oppure si rivolgeva con sberleffi a quelli di Baldasseria, di Laipacco, di Godia, del Cormòr. “Cosa volete capire voi – diceva qualcun altro del centro città – che siete tutti contadini!”.
Eppure raccoglievamo la carta straccia per le opere missionarie. Si lavorava sodo e si pregava. Ricordo che i nostri soldi andavano a don Beppino che era missionario in Burundi. Egli ci scriveva delle lunghe e strazianti lettere che venivano lette a tutto il gruppo dal prete o dal conduttore del gruppo. Più avanti ho capito che era padre Giuseppe De Cillia, di Plasencis. Anche se non l’avevo mai visto, mi ha fatto sempre simpatia perché è nato in un paese vicino a dove è nato mio padre: San Vito di Fagagna. Molti miei zii e cugini abitavano e abitano in Via Plasencis a San Vito di Fagagna. Anche se io sono nato a Udine, con questo Bepi mi sentivo un vicino di casa, soprattutto quando con mamma, fratelli e sorelle si andava a trovare gli zii e i cugini a San Vito di Fagagna, dove i Varutti hanno dato due preti e due monache alla Chiesa.
Noi raccoglievamo carta ed altro, poi i soldi andavano a Beppino. Egli tirava su case, opere parrocchiali, ospedali nell’Africa Nera. Poi l’ho conosciuto. Padre Bepi De Cillia: un uomo mite. Tenace nelle sue opere. Non riuscivo bene a capire perché fosse partito, giovane religioso, per l’Africa equatoriale, in missione. È lì che trovò tante soddisfazioni ecclesiali, ma pure la malaria e scontri tribali senza ritegno, uccisioni tra etnie (hutu e tutsi) verso il 1972. Morti a non finire per odio razziale. Con l’intervento di ribelli congolesi, tanto per aggiungere caos al caos. Bepi rispose con forme postconciliari, chiamando a sé anche dei volontari laici.
Nel 1976 il Presidente della Repubblica Jean-Baptiste Bagaza attuò qualche riforma per pacificare il paese. Nel 1979, volendo limitare l’influenza della chiesa cattolica, iniziò ad espellere missionari e stranieri. 
Nel 1984 padre Giuseppe De Cillia fu richiamato in Italia, fino al 1989. Con l’ennesimo colpo di stato militare il Burundi si trovò un nuovo capo, che riaprì le porte ai missionari. Fu allora che padre Beppino se ne tornò in Burundi fino al 2013, impegnandosi in opere sociali e cooperative, oltre che nel campo religioso. Dal 1993 al 2005 il Burundi fu scosso da un'altra guerra etnica, ma padre Beppino rimase duro al pezzo. Lo chiamavano “Buyengero”, perché girava con camion un po’ sgangherato della parrocchia di Buyengero, dove operava in precedenza.
A padre Buyengero, nel 2011, fu conferita la cittadinanza onoraria dal Governo del Burundi e fu iscritto in una lista di coloro che beneficiarono il piccolo paese centro africano. Il Console onorario del Burundi a Milano in occasione del funerale di padre Giuseppe De Cillia si recò appositamente a Parma e volle avvolgere la bara del nostro Bepat nella bandiera nazionale del Burundi. Analoga cerimonia si tenne in Friuli nel suo paese natale: Plasencis.
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BIOGRAFIA
Padre Giuseppe De Cillia è nato a Plasencis, comune di Mereto di Tomba, provincia di Udine, il 17 marzo 1936, da Pietro e Agostina D’Antoni. Fu battezzato due giorni dopo col nome del santo della giornata, San Giuseppe.
Dopo le classi elementari, nel 1939 entrò nella Scuola apostolica dei Saveriani a Udine. Dopo le scuole medie passo a Zelarino, provincia di Venezia, per il ginnasio. Entrò in noviziato a San Pietro in Vincoli, provincia di Ravenna, nel settembre 1954 e l’anno seguente, il 12 settembre, fece la prima professione. Frequentò il liceo a Desio e teologia a Parma. Il 13 ottobre 1963, nell’ultimo anno di teologia, fu ordinato presbitero a Parma, insieme ad altri compagni di studio. Terminati gli studi teologici, fu destinato alla missione in Burundi, presso il vescovo di Bururi, Monsignore Joseph Martin, dei Padri Bianchi. Dal 1962 il Burundi è indipendente dal Belgio, che lo colonizzava. Il 60 per cento della popolazione è cattolica. Conta 2,5 milioni di abitanti nel 1962, quadruplicati nel 2012. 
Padre Bepi De Cillia morì a Parma il 4 gennaio 2015.
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BIBLIOGRAFIA
Gabriele Ferrari, P. Giuseppe De Cillia. 17.03.1936-04.01.2015, «In memoriam. Profili biografici saveriani», Edizioni C.S.A.M. scrl, Brescia, 1, 2015.

martedì 19 aprile 2016

Itinerario storico di Baldasseria, Udine

Appunti del professor Elio Varutti
Passeggiata culturale a piedi, 17 aprile 2016, ore 10,00-12,00, partecipanti 120.
Ritrovo presso la Chiesa di S. Maria degli Angeli, Via Baldasseria Media, 49-51, Udine
Organizzazione:  Associazione Insieme con noi, di Udine Sud. Poi Genitori in onda, Flavio Moratto dei soci coop ed altri hanno dato una mano a divulgare e contribuire al ristoro.


1)    (Fuori itinerario) In Via Pradamano 21 (oggi Scuola E. Fermi) c’era il Centro di Smistamento Profughi di Udine, 1947-1960. Verso la fine della seconda guerra mondiale accolse oltre 100 mila italiani durante l’esodo da Zara, Fiume, Pola, Istria e Dalmazia in fuga dalle violenze dei miliziani jugoslavi di Tito.
2)      Chiesa di S. Maria degli Angeli. Conserva ancora tutto il fascino della romita chiesetta di campagna, umile e semplice come la fede degli abitanti che l’innalzarono nel lontano 1831 per assistere alla Messa, distanti com’erano dalla parrocchiale della Beata Vergine del Carmine, in Via Aquileia. Il campanile è del 1883. La sagra di Baldasseria, parte religiosa, è collegata ai voti per le scampate epidemie di colera, 1873.
3)      Lapide dei Caduti di guerra, 1915-1918. Indicazioni certe sulla vita del borgo le abbiamo solo dal ‘900. Carlo Rizzi, di anni 76, ha raccontato a Orzan nel 1984: «I Rizzi hanno sempre abitato qui da generazioni. Mio nonno era chiamato “Agnul cuardarûl”. I tre vialetti paralleli, che ora sono le entrate delle case di levante, una volta erano il laboratorio del mio avo. Lunghi quanto le corde che fabbricava, qui armeggiata tra balle di canapa e il cigolare di torcitrici, verricelli e arcolai. Quando ero ragazzo nella casa dei Marano (civico 126) c’era l’osteria con il tabacchino gestita da sior Ugo che faceva il postino. Le vecchiette venivano a comperare qualche soldo di macube o di cinzilio (tabacco da fiuto). La domenica si giocava a bocce. Nell’area contigua, dove ora ci sono l’orto e l’entrata delle villette del Messaggero si teneva il 24 agosto o lo domenica dopo, lo sagra detta di S. Bartolomeo. Si ballava sul breâr (tavolato) al suono delle fisarmoniche e alle luci dei ferai a carburo (fanali). L’attuale sagra che si teneva in via Baldasseria Media ed ora si fa nel cortile della Parrocchia, è nata qui».
La Chiesa di S. Maria degli Angeli in Baldasseria, Udine. Fotografia di Elio Varutti

Non potevamo festeggiarla il 15 agosto giorno dell’Assunzione di Maria, perché lo gente se ne andava tutta in Giardino Grande alla tombola tradizionale. E anche per non confondere il sacro col profano. Dopo la Grande guerra l’osteria venne rilevata da Pieri e Pina Mandoline (Castronini) che spostarono l’esercizio sotto il portico (galleria), abitazione dei Macor. Vendevano vino sfuso e a fiaschi. Era il posto prediletto degli anziani che giocavano per ore a briscola e tressette, mentre le mogli rassegnate li attendevano invano a cena. La messa si teneva nella chiesetta di S. Maria degli Angeli e la scuola nel vecchio edificio di via Piutti. Si frequentava fino alla terza; poi si doveva andare alla Dante. Ricordo anche il nome delle maestre: Costanza Cozzi e Raffaella Gioconda.
Ogni tanto dal Castello suonava l’allarme per le incursioni degli aerei e dei dirigibili tedeschi che bombardavano lo stazione ferroviaria. Le maestre spaventate si rifugiavano sotto i banchi e noi sciamavamo per i campi. Quando nella scuola si stabilì un comando militare le lezioni si tenevano nella casa dei Vuattolo.
Durante la guerra 1915-1918 nella vecchia cava d’argilla delle fornaci Rizzani (area su cui ora sorgono l’Istituto Ceron e il supermercato) c’erano trincee, protette da filo spinato attraversato dalla corrente elettrica, scavate in previsione di un ripiegamento del fronte dell’lsonzo.
Dai Clocchiatti, invece, i militari addestravano i S. Bernardo a trainare, perché meno vulnerabili al bersaglio, i biroccini per portare vettovaglie e munizioni in prima linea. Dopo lo guerra, appena rientrato dall’esodo di Caporetto in Toscana, nei prati dei Carlini c’era un campo di concentramento di prigionieri austro-ungarici trasferiti, in seguito, altrove.

Vicino a un "Puarte fûr di nape" in Via Baldasseria Media, manufatto che fuoriesce dalla struttura dell'antica casa friulana, conteneva il focolare (fogolâr), veniva emarginato dalla casa per paura degli incendi


4)      Lavatoio restaurato nel 2016, come monumento. Inaugurato col sindaco Honsell. Costruito verso il 1920-1930 al centro della piazzetta della chiesa, poi spostato alla fine degli anni Cinquanta. Dismesso nel 1965, per la intombatura del roiello che lo alimentava.
5)      All’angolo tra via Baldasseria Media e via Lauzacco si erge la bella ancona, con lo statua dell’Immacolata Concezione Rifugio dei Peccatori fatta erigere da Don Gerardo Della Longa nel 1954 a ricordo dell’anno mariano.
6)      In un altro angolo, posto tra via Baldasseria Bassa e via Lauzacco (località Piccola Parigi) campeggia una Madonna attorniata da pargoli e figure di santi. Si tratta di un dipinto su tavola di compensato che copre, a mo’ di palinsesto, quello originale e quasi irriconoscibile sull’intonaco (che risale alla metà dell’800). É opera del pittore Santo Sant di Cassacco ed è stato collocato da don Tarcisio Bordignon nel 1968. Un’edicola recente si trova, invece, in fondo a via Baldasseria Bassa sulla casa De Faccio.
7)      Nella carta topografica “Le Frioul” degli ingegneri Maieroni e Cappellaris, edita nel 1778, ed in quella della “Provincia del Friuli” del Malvolti nel 1819, è segnata una località detta Lisbona a nord-est di Cussignacco, in Baldasseria. Gli anziani del luogo, però, non l’hanno mai sentita nominare, in base alle interviste di Alfredo Orzan del 1992. Secondo il Corgnali può darsi che questo nome derivi dall’insegna di un’osteria (o da quello primigenio della stazione di posta, n.d.r.) a ricordo del catastrofico terremoto di Lisbona del 1775. In questa località, ora conosciuta come “Piccola Parigi”, la sera del 10 dicembre 1807 sostò per qualche ora Napoleone invitato dal sindaco a visitare ufficialmente la nostra città, allora facente parte del Regno Italico. Può darsi anche che qui si siano accasati dei disertori francesi, come avvenne in Carnia con i cosacchi nell’ultima guerra. L’osteria «Al Francese» sorta nell’ultimo dopoguerra, non ha nessuna relazione con le ipotesi avanzate. La intitolò lo scomparso Gino Colle, padre dell’attuale gestore, emigrato in Francia per tanti anni. A così intitolarla furono gli avventori: «Anin a bevi un tai là dal Francês».


8)      Carletto Domenico nell’agosto del 1971 (allora aveva 79 anni) in occasione della sagra, intervistato, dichiarava al periodico della comunità, in quegli anni intitolato «Parrocchia di S. Pio X»: «I Casali di Baldasseria Bassa vennero denominati “Piccola Parigi” all’inizio del 1800, quando anche la Baldasseria Bassa era un covo di contrabbandieri ... il centro della borgata era costituito dallo stallone o stazione dei cavalli, fabbricato adibito ad abitazione». Evidentemente (e su questo punto le testimonianze orali tramandate sono concordi) nel borgo (Via Baldasseria Bassa al civico 171 e nei cortili interni) esisteva una stazione di posta per il cambio dei cavalli alle diligenze che provenivano da Trieste e Gorizia ed erano dirette a Vienna. Questa sosta favoriva il contrabbando di merci facilmente reperibili nel porto giuliano, ma attirava anche donne compiacenti in cerca di zerbinotti denarosi. Forse il toponimo nacque allora per definire, come dice Carletto, il luogo poco raccomandabile e malfamato simile a certi quartieri della capitale francese. Dopo l’avvento della ferrovia, questa stazione rimase inattiva e si trasformò in rimessa per carrozze, probabilmente, di privati e facoltosi cittadini che avevano in affitto anche qualche stanza per le loro scappatelle».
9)      La capitolazione dei risorgimentali friulani agli austriaci, comandati da Nugent. Fu firmata il pomeriggio del 22 aprile 1848 nei casali Serafini della nostra Baldasseria. A parlamentare giunsero in carrozza, oltre all’arcivescovo, il conte Caimo Dragoni, Presidente del Governo Provvisorio, il facente funzioni del Podestà Paolo Centa ed altre autorità.
10)  La corsa del palio ebbe origine a Udine addirittura agli inizi del XIV secolo. Essa era regolata da appositi statuti ed aveva la sua brava giuria. La manifestazione aveva luogo il 23 aprile, festa di San Giorgio e dal 1420 si aggiunse un’altra corsa del palio il 6 giugno, festa del Beato Beltrando di San Genesio (Saint Geniès). Nel giorno precedente le corse “i premi suddescritti venivano portati in giro per la Terra con accompagnamento di suonatori e di popolo festante” (Vincenzo Joppi – Udine prima del 1425 pag. 18). La partenza o mossa veniva data “nel sito detto la madonetta fuori la Porta d’Aquileja” (Gian Domenico Ciconi – Udine e la sua Provincia, pag. 63). Chiaro quindi che la partenza delle due corse del palio aveva luogo a Baldasseria, precisamente dallo spiazzo della Madonnetta, che è la “via del palio” doveva condurre di lì a porta Aquileia.
11)  All’altezza della palestra di Ceron, nel 1945 i nazisti e i cosacchi fecero scavare ai requisiti il “trincerone anticarro”.  Gravissimo danno causò tale fossato anticarro, che cinse tutta la città e passava nei pressi del Bowling, continuando il «fosso» del Ledra ma qui la TODT tedesca, temendo l’avanzata da sud, aveva prestato maggior cura. Le strade furono tutte interrotte: il viale Palmanova era bloccato da muraglioni di cemento armato, le strade di campagna chiuse, le altre, come via Baldasseria Media, erano transitabili solamente attraverso una passerella, consistente in una tavola che faceva da ponte tra le due sponde rialzate del fossato.
12)  Ritorno verso la Chiesa di S. Maria degli Angeli. Si è finito il giro nei locali dell'Orto Felice vicino alla Pizzeria "Da Mario", con un breve rinfresco per tutti, grandi e piccini.


Bibliografia


Un mio articolo in questo stesso blog: Baldasseria vista dal maestro Orzan, luglio 2015.
Poi ci sono anche: I platani del Vial di Palma, Udine 1960-1965, marzo 2015.
La storia Antonio Friz, studente di Udine Sud, il ragazzo partigiano "Wolf" delle Brigate Osoppo Friuli (BOF) è nell'articolo intitolato "Guerra civile a casa. Storie di scampati all’eccidio di Porzus, 1945", dicembre 2014.

domenica 17 aprile 2016

Da Kandinsky a Pollock a Firenze

C’è una mostra interessante ed istruttiva da vedere. Intitolata “Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim”, la rassegna è aperta al pubblico a Firenze presso Palazzo Strozzi dal 19 marzo al 24 luglio 2016. Se vi appassionano i colori, qui c’è trippa per gatti. Si va dal Surrealismo all’Action Painting fino all’Informale e alla Pop art.


Fare un elenco delle opere sarebbe riduttivo. La rassegna, pensata da Luca Massimo Barbero, curatore associato della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, è nata dalla collaborazione tra la Fondazione Palazzo Strozzi e la Fondazione Solomon R. Guggenheim di New York. Mette in scena un originale ed innovativo rapporto tra le collezioni di Solomon e Peggy, zio ed appassionata nipote. L’itinerario proposto si sviluppa tra i più grandi artisti della storia dell’arte del XX secolo. Iniziando con Kandinsky (visto il titolo della mostra) e proseguendo con Duchamp, Picasso e Max Ernst. Ci si sofferma sull’arte del dopoguerra tra Europa e America, con i cosiddetti informali europei tipo Alberto Burri, Emilio Vedova, Jean Dubuffet, Lucio Fontana. Poi ci sono i pezzi da novanta dell’arte moderna americana del periodo 1940-1960, tra cui emergono Jackson Pollock, di cui sono esposte 18 tele, oppure Mark Rothko presente in mostra con ben sei quadri. Di Alexander Calder vedrete cinque grandi sculture cosiddette mobiles, ma anche, tra gli altri, Willem de Kooning, Robert Motherwell, Roy Lichtenstein e Cy Twombly.
Una pagina del depliant della ottima mostra di Palazzo Strozzi con la riproduzione di una tela di Jackson Pollock, Senza titolo (argento verde) / Untitles (Green Silver), 1949 circa, New York, Solomon R. Guggenheim Museum

La stanza più bella è quella dedicata a Rothko. È un parere personale. Tutta nera. Con le tele dell’artista sotto i faretti a illuminare solo le sue campiture a forma di “rettangoloni”. Le scritte accanto ad ogni opera sono stampate sulla parete. A caratteri grandi, molto leggibili, anche da una certa distanza. Sono poste ad un metro e venti centimetri da terra. Oserei dire: a norma europea (del parapetto). Mi scuserà il lettore se insisto su tali aspetti diciamo così noiosamente accessori. Ho visto troppe esposizioni o musei con le targhette di spiegazione formato francobollo, posizionate a pochi centimetri dal battiscopa. Utili alle pantegane forse, ma poco agevoli per gli umani.
Certi miei amici architetti (e allestitori di mostre e musei) sostengono, ad esempio, che le targhette color argento metallizzato (tipo specchio accecante) con le scritte azzurre siano molto “di tendenza”. Sarà, ma sono illeggibili, quindi demenziali. A Palazzo Strozzi è tutto leggibile e fruibile, persino alle famiglie e ai bambini.
Uno degli ingressi alla originale rassegna di Firenze, Palazzo Strozzi Da Kandisky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim” 
Fotografia di Elio Varutti

È logico che le opere d’arte siano al primo posto in una mostra, ma l’allestimento e la fruibilità dei visitatori non sono da trascurare. Lo sapevano già i primi raccoglitori di opere d’arte: sovrani e papi. Ma anche le casate nobili, come i Medici, gli Estensi e i Gonzaga. Mi vengono in mente il corridoio vasariano, la galleria degli Uffizi, oppure la Wunderkammer (camera delle Meraviglie) dei paesi nordici, originatasi dal medievale tesoro dei castelli principeschi. Per giungere, appunto, a Peggy Guggenheim e alla Galleria surrealista di “Art of This Century” realizzata a New York nel 1942 circa, in piena seconda guerra mondiale. Pareti ricurve, luci che si accendevano e si spegnevano ogni tre secondi, sgomentando i visitatori, secondo le parole della stessa Guggenheim.
Appena entrati in questa rassegna c’è la citazione dell’allestimento della Galleria surrealista del 1942. Si incappa nelle deliziose linee squadrate di Giorgio De Chirico de “Il pomeriggio soave (Le Doux Après-midi)” del 1916. Cent’anni fa, altro periodo di tremenda guerra. Lì appresso c’è un Max Ernst intitolato “Il bacio (Le Baiser)”, olio su tela del 1927, che campeggia nelle fotografie della mostra surrealista del 1942. Corpi che si avvinghiano. Figure molli ed un piedone che spunta in basso a destra. Max Ernst mi ha sempre fatto rivoltare le celulline del cervello. Con l’encefalo ribaltato (o aumentato?) posso accingermi a visitare questa mostra così intrigante. Allora capisco al volo la scultura in ottone di Constantin Brancusi intitolata “Uccello nello spazio (L’Oiseau dans l’espace)”, cm 151,7, del periodo 1932-1940, cui lo stesso autore era così affezionato da esitare nel venderla, pur sapendo che sarebbe finita in ottime mani.
Tutta questa mostra è una dimostrazione di affetto per l’arte dei mecenati, quali furono i Guggenheim. Generosi, oltre tutto, con vari musei del mondo, viste le donazioni effettuate da Peggy Guggenheim. Hanno creato, inoltre, due istituzioni culturali tra le più celebri al mondo per l’arte moderna, la Collezione di Venezia, del 1951 e il museo Guggenheim di New York, inaugurato nel 1937.    
Ritorno alla sala di Rothko, perché è come un ventre materno direbbero altri miei amici, psicanalisti, questa volta. L’effetto buio genera nel visitatore un risultato moltiplicatore delle sensazioni sprigionate dalle opere e dai colori caldi di Rothko. Usciti di lì c’è l’ultima sala con un quadro di Roy Lichtenstein di dimensioni ciclopiche. È un olio e acrilico su tre tele ravvicinate per dimensioni totali di cm 304,8 x 548,6 intitolato Preparativi, del 1968. Ci sono volti grandissimi, tipo statue dell’Isola di Pasqua, con fumanti ciminiere e una mano con martello che batte sulle travi e putrelle metalliche di una metropoli industriale e città dei consumi.  
Qualche visitatore si sarà stizzito (anziché divertirsi) nell’osservare le sculte dondolanti di Alexander Calder. Sono esse inserite in una grande sala con appese alle pareti opere con forme tondeggianti e ricurve come le note lamiere di Calder.
C’è chi avrà esclamato: “Ma quello lo so fare anch’io”, dinanzi alle tele sforacchiate di Lucio Fontana, oppure dinanzi alle plastiche e cellotex incendiate e combuste di Alberto Burri, nell’opera “Bianco B.” del 1965, o ai baffetti piazzati sull’immagine di Monna Lisa da Marcel Duchamp nella sua “Scatola in una valigia (Boîte en-valise)” del 1941. A parte che l’aveva già detto e scritto William Hogarth nella sua “The Analysis of Beauty”, Londra, 1753. Scrive Hogarth di certi semplici profili riprodotti nel volume “ed ognuno potrebbe fare il medesimo ad occhi chiusi” (p.12 della edizione italiana “L’analisi della bellezza”, Milano, Se srl, 1989). In generale bisogna ricordare quale sia il percorso artistico compiuto da un pittore. Picasso non ha dipinto sempre e solo nasoni strani come nel “Busto di uomo in maglia a righe” del 1939, presente pure in questa rassegna. Il modernismo è anche questo.
Alle ore 16 di sabato 16 aprile 2016 "solo" 60 persone in coda, in fondo nella fotografia

Ho lasciato per ultimo in questi modesti commenti un cenno a Mirko Basaldella, scultore nato a Udine nel 1910 e morto a Cambridge nel 1969. Qui le sue sculture leonine degli anni Cinquanta sono valorizzate tanto da evocare l’ingresso in certe importanti cattedrali italiane, dove appunto si notano a destra e a sinistra del portale principale la scultura dei grandi felidi. 

C’è infine da dire che la mostra “Da Kandisky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim” è tra le cinque cose da non perdere al mondo. Ciò almeno stando all'articolo del magazine "Ulisse" di Alitalia, marzo 2016.

Ultimissime dalla biglietteria della rassegna. Nel pomeriggio del 18 aprile 2016 è stata superata la quota 50 mila visitatori. Non male come inizio!

Teoria e pratica del magnetino di Klee
Avesse saputo Paul Klee che i suoi dipinti sarebbero finiti sui magnetini del frigorifero, non so cosa avrebbe pensato. Eppure la mini riproduzione del “Portrait of Mrs. P. in the South”, del 1924, della Peggy Guggenheim Collection di Venezia è proprio lì sul mio frigorifero. Me la godo ogni volta che la vedo. Mi fa impazzire per il miscuglio di tecniche usate dall’autore. Disegno ad acquerello e ricalco a olio su carta montata su tavola dipinta a gouache. Neanche fosse stato un tipografo! Quel delizioso cappellino con la veletta della signora “P. nel Sud” poi è lì in mostra a Firenze a Palazzo Strozzi. Klee mi ha sempre fatto sognare, e lo ringrazio.
Non vorrei scomodare Walter Benjamin col suo “Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit” (L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica) del 1936. Egli sostiene che, col Novecento, le nuove tecniche per produrre, rifare e diffondere, a livello di massa, opere d’arte abbia sostanzialmente mutato l'approccio verso l’arte sia degli autori che del pubblico. Benjamin incrocia nel suo geniale saggio due temi di fondo, la riflessione sul rapporto tra arte e tecnica e la fruizione dell’opera d’arte nella società di massa.

È un dato di fatto che un banale magnetino di pochi euro (o un poster, una fotografia) di una celebre opera d’arte consenta la fruizione in ogni spazio, che non sia un museo o una galleria d’arte. Persino la portiera di un frigorifero.
Paul Klee, “Portrait of Mrs. P. in the South”, 1924, Peggy Guggenheim Collection, Venezia
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Orario mostra: tutti i giorni inclusi i festivi 10.00-20.00. Giovedì: 10.00-23.00
Info: telefono +39 055 2645155 sito web: www.palazzostrozzi.org/mostre/guggenheim/
info@palazzostrozzi.org

Prenotazioni: Sigma CSC. Dal lunedì al venerdì: 9.00-13.00 / 14.00-18.00. Telefono: +39 055 2469600.
prenotazioni@palazzostrozzi.org