giovedì 18 febbraio 2016

Lo storico Massimo Montanari allo Stringher di Udine

Succede a volte che un'istituzione locale riesca a coinvolgere un personaggio di caratura internazionale. È accaduto all'Istituto "Bonaldo Stringher" di Udine, una scuola con una grande esperienza nel settore alberghiero, commerciale e turistico in Friuli Venezia Giulia.
Venerdì 12 febbraio 2016 lo storico di fama internazionale Massimo Montanari,  docente ordinario presso l’Università di Bologna e massimo esperto di storia e cultura dell’alimentazione, ha incontrato circa duecento studenti e molti insegnanti dell’Istituto Stringher in occasione di una conferenza sulla storia dell’alimentazione organizzata da Anna Maria Zilli, Dirigente scolastico dell’Istituto e dal Laboratorio di Storia, coordinato dal professor Giancarlo Martina. L’incontro è inserito nel progetto “Storie di donne nel ‘900” per l’Ampliamento dell’Offerta Formativa, sostenuto dalla Fondazione CRUP.
Il professor Giancarlo Martina, Massimo Montanari nel Laboratorio di Sala e Vendita all'Istituto Stringher di Udine. 
Fotografia di Cristiano Meneghel

Dopo i saluti di rito, Montanari ha tenuto presso l’aula magna della sede centrale dello Stringher, davanti ad una vasta platea di studenti e docenti, una intensa conferenza sulla cucina come elemento culturale dal titolo “L’alimentazione in Italia tra Ottocento e Novecento”.
Lo storico ha ricordato che la cucina fa parte dell’identità culturale italiana tanto quanto l’arte e la storia e che a riprova di ciò già nel 1548 comparve il Commentario delle più notabili & mostruose cose d'Italia & altri luoghi. Catalogo de gli inventori delle cose che si mangiano & beveno di Lando Ortensio, un trattato sulle bellezze d’Italia ma che era anche una guida gastronomica della penisola.
Montanari ha poi rimarcato che proprio nel Cinquecento a muoversi in lungo e in largo per un’Italia ancora politicamente frammentata erano proprio i cuochi che per la loro fama erano contesi dalle corti rinascimentali, tanto che Bartolomeo Scappi, cuoco papale, si sentiva a casa in ogni parte d’Italia si trovasse in quanto i prodotti utilizzati per la cucina erano già all’epoca “patrimonio nazionale” in quanto scambiati in tutti gli stati italiani. Già allora, infatti, il parmigiano era usato dalla Lombardia alla Sicilia tanto che si può far risalire al Cinquecento il concetto della denominazione di origine controllata che ha dato il nome di provenienza a molti prodotti delle campagne italiane per distinguerli tra loro in base alla loro provenienza, qualità ed eccellenza. Il Parmigiano e il Brunello di Montalcino non sono che esempi di una moltitudine sconfinata di cibi e bevande che fin dal ‘500 erano commerciate in tutta la penisola.
Grazie a questi cuochi itineranti si costruì una rete di conoscenze culinarie che li unificò mentalmente, dando vita ad una prima comunità nazionale cosciente del fatto che l’Italia era una zona geografica in cui vi era “unione di uomini e gusti culinari”.
Secondo Montanari risulta rovesciato il teorema ottocentesco di Massimo d’Azeglio che recitava “fatta l'Italia bisogna fare gli italiani”, in quanto gli italiani esistevano già ed erano quei cuochi e quei pochi intellettuali che concepivano l’importanza della cucina alla stessa stregua della storia, dell’arte e della letteratura.
Ma fu nel 1891 che l’Italia venne unificata definitivamente a tavola grazie all’Artusi che creò un vero e proprio progetto politico fondato sull'arte del mangiar bene: scrivendo un libro di cucina intendeva creare una unità nazionale della tavola.
Artusi, non cuoco, ma un gourmet degustatore, utilizzò il treno per andare a vedere direttamente come si faceva da mangiare nelle osterie di tutta Italia. Egli usò la posta per comunicare con chi aveva comperato il suo libro instaurando un rapporto coi lettori che gli scrivevano migliaia di lettere. Fondò un proto-blog fatto di epistole in cui i lettori chiedevano consiglio per cucinare sempre meglio. Così facendo Artusi riuscì ad ottenere le ricette siciliane, come ad esempio i maccheroni con le sarde, anche se non era mai stato in Sicilia.
Artusi pubblicò 14 edizioni in 20 anni del suo La Scienza in Cucina e l’arte del mangiar bene, di volta in volta accresciute delle ricette che gli trasmettevano proprio i suoi lettori. Egli rischiò del proprio perché nessun editore ebbe il coraggio di affrontare l’impresa e Artusi pubblicò il ricettario di tasca propria.

Il suo pregio fu quello di non codificare la cucina, ma anzi ne conservò le varianti regionali capendo che la differenziazione locale era ed è tutt’oggi il fulcro della ricchezza culturale italiana. Il regno non del caos, ma della democrazia in cui vi è un rispetto e confronto reciproco. Montanari ha voluto sottolineare proprio questo aspetto, al contrario della rigida codificazione della cucina francese che dal ‘600 aveva dei ricettari standard.
Basti pensare che uno dei piatti tipici più famosi d'Italia è la torta salata, ma ne esistono centinaia di versioni così che Scappi e Artusi le ammettevano tutte come valide.
La bellezza della cucina e della cultura italiana è quindi la varietà e la sua diffusione capillare sul territorio italiano.

Montanari contesta chi sostiene che non esiste la cucina italiana, ma solo cucine locali, in quanto in realtà ci sono piatti locali e conoscenze che messe in rete sono divenute patrimonio nazionale.
Ad anticipare lo stesso Artusi fu nel 1849 un oste toscano, Lorenzo Bicchierai, che in un diario scrisse che si immaginava l'Italia unita come un pentolone di carni miste bollite. Un piatto unico con tanti gusti uniti dal brodo e dalle tre salse verde, bianca e rossa. L'Italia, quindi, con tutte le sue diversità, poteva benissimo divenire qualcosa di unito e coeso in cui non è la somma delle particolarità bensì la moltiplicazione delle stesse che da sostanza. 
Artusi non forniva ricette fisse, ma, anzi, consigliava di usare ingredienti diversi a seconda dei propri gusti e in base a ciò che era disponibile in quel momento. Diede 3 ricette diverse del risotto alla milanese che a sua volta ammettevano altre varianti. 
La cucina, secondo Montanari, mette in comunicazione la cultura alta e quella bassa in quanto in Italia non esistono piatti "alti" e piatti poveri. La stessa cucina povera è sempre stata anche cucina di corte. 
Artusi ovviamente si rivolgeva ai cittadini che sapevano leggere e scrivere, ma si rivolgeva anche ai contadini che facevano parte del territorio in cui si rispecchiavano le città. I borghesi d'altronde avevano servitori campagnoli e contadini, spesso tra il personale di cucina.
Artusi stesso scrisse il libro anche grazie alla sua giovane cuoca che era una giovane contadina di Massa Carrara a cui lasciò i diritti d'autore riconoscendola ufficialmente collaboratrice al momento della sua dipartita nel 1911.
Il libro di Artusi è ancora oggi il libro di cucina più venduto d'Italia. Si può dire che invece di scrivere un libro per gli italiani, scrisse un libro con gli italiani ed è forse l’unico libro “nazionale” d’Italia. 
Il testo di Artusi divenne talmente popolare che era il regalo di nozze per antonomasia e veniva portato in America dagli emigrati tanto che se ne trovano ancora copie nei mercatini d'antiquariato degli Usa.
Massimo Montanari e Giancarlo Martina
Fotografia di Cristiano Meneghel

L’opera di Artusi, quindi, non rappresentava solo lo spaccato geografico di Italia, ma anche quello sociale. Dopo Artusi, ha proseguito Montanari, fu la prima guerra mondiale a rinsaldare la coesione culturale, sociale e culinaria d'Italia.
In trincea si diffuse l'uso delle scatolette, le conserve, i Cirio, contrariamente all'uso di consumare cibi freschi. I soldati mangiavano tutti lo stesso rancio, ma al fronte arrivavano i pacchi da casa e tutti condividevano i cibi delle proprie regioni.
Nei campi di concentramento tedeschi dopo la rotta di Caporetto, ha ricordato Montanari, diversi ufficiali e soldati italiani internati scrissero libri di cucina con ricette tipiche delle loro zone di provenienza. Attraverso i ricordi, il pensiero della cucina diventa espressione di identità e calore famigliare. Tutti parteciparono alla stesura, ognuno portando la ricetta “della mamma”.  Ritorna ancora il confronto reciproco sulle diverse tradizioni culturali e culinarie di tutta Italia.
Gli italiani parlano sempre di cucina perché, nella cultura italiana, il cibo ha la funzione primaria di unità nazionale in quanto è più antico dell'unità politica. L'Italia è un paese unico in quanto si basa sul confronto e la condivisione culinaria in maniera democratica, il cui popolo è oggi unito proprio a tavola. Lo “Slow Food”, sostiene Montanari, non poteva che nascere in Italia perché qui vi sono le maggiori differenziazioni regionali in cucina.

        Servizio giornalistico a cura di Cristiano Meneghel, Giancarlo Martina e Elio Varutti

Nessun commento:

Posta un commento