lunedì 29 giugno 2015

“Caro Uccio… tua Ette”. Lettere dell’esodo giuliano dalmata

Queste prime due lettere con le affrancature postali strappate, ma viaggiate da Fiume il 9 febbraio 1946, ore 9 e il 12 febbraio 1946 furono sottoposte alla “Vojna Cenzura” (Censura militare) del regime iugoslavo. La terza missiva, viaggiata il 24 agosto 1949, ore 16-17, contiene bollo e timbro di Venezia ed era diretta a Roma. Furono spedite da Odette Grazzina (Fiume 28.05.1920 - Roma 07.01 1999) a Roma e, poi, la prima reindirizzata a Venezia, al marito Carlo Ferruccio Conighi (Fiume 24.06.1912 – Roma 1998). 
L’indirizzo del destinatario nella prima busta è stato cancellato e modificato. La prima versione recava la località di Roma, poi è stata scritta Venezia, dove è giunta. La seconda missiva è per Venezia. L’ultima corrispondenza, scritta da Treviso, era diretta per Roma. Nell’esodo successe che le persone si spostassero come birilli. I tre originali documenti e le fotografie che corredano l'articolo presente fanno parte della Collezione della famiglia Conighi di Ferrara.
Interessante è il lessico dell’autrice, per tentare di catalogare le tematiche e i linguaggi della corrispondenza dell’esodo.
Fiume, 28 dicembre 1944 - Nozze di Carlo Ferruccio Conighi con Odette Grazzina

Importante, in queste righe, è rilevare che non si noti la consapevolezza del dover partire da Fiume, scacciati dalla pressione iugoslava, come successe per la gran parte dei fiumani. Fu un esodo massiccio; fuggirono oltre 30 mila abitanti italiani (1)  su oltre 53 mila individui censiti nel 1936, dei quali 11 mila croati. In città restarono 8-10 mila slavi e qualche italiano, definito “rimasto”.
Come scrisse Alfredo Monelli (2)  “La città di Fiume era uno squallore. Negozi vuoti, ma con le vetrine piene di slogan inneggianti a Tito, al socialismo, al potere popolare, al Partito Comunista Jugoslavo. E poi bandiere rosse, falci e martelli rossi, stelle rosse. Impressionante era la sparizione totale degli oggetti di prima necessità: sapone, pettini, aghi, filo per cucire, spago, bottoni, lamette per barba, pezzi di ricambio e oggetti minuti di ogni genere… Durante tutto l’inverno del 1948 in città non trovammo un frutto per il nostro bambino”.


Busta con timbri della censura iugoslava e con affrancatura stracciata, ma viaggiata da Fiume il 9 febbraio 1946, ore 9 fino a Roma e poi reindirizzata a Venezia, luoghi dell'esilio dei Conighi-Grazzina. Contiene la prima lettera riprodotta nel presente articolo

1.   La tecnica per de-italianizzare
In diverse interviste ho individuato la stessa tecnica adottata dalle autorità iugoslave per far fuggire gli italiani di Fiume, dell’Istria e della Dalmazia. È un metodo strisciante di pulizia etnica; è un modo per de-italianizzare quelle terre e, allo stesso tempo, per slavizzarle. Certi italiani si ritrovarono ad un certo punto a dover tenere in casa un militare dell’esercito iugoslavo o, addirittura, un milite dell’Ozna, in qualche caso con la sua famiglia. Essi non pagavano un affitto. La convivenza era insostenibile. C’era un servizio igienico per due famiglie, che doveva essere pulito solo dagli italiani. Dopo le proteste per le ingiustizie, gli italiani – come mi ha riferito Elpida Chelleris, di Isola d’Istria – subirono dei pestaggi. “I gà avertì mio marì [marito] che i lo pestava – ha precisato Elpida Chelleris – e alora el se andà via prima de mi”.
Era il 19 novembre 1953 e Valnero Nicola, marito della signora Chelleris, passa il confine tra la Zona B, controllata dai titini, e la Zona B, controllata dai cerini. Così si trova nel Territorio Libero di Trieste (TLT), amministrato dagli angloamericani fino al 1954. Erano chiamati cerini o bàcoli neri, i militi alleati di stanza nel TLT, perché al largo elmetto USA, di colore verde scuro, alternavano una divisa chiara (“tuta frugada e stinta”), facendoli assomigliare secondo la voce popolare a dei fiammiferi o, peggio, a degli scarafaggi (bàcoli, dialetto fiumano, istriano e triestino).


La prima lettera di Odette Grazzina (il verso del manoscritto), datata Fiume, 8 febbraio 1946. Si noti, in fondo, la firma con diminutivo affettuoso "tua Ette"

2.    Sociologia della corrispondenza dell’esodo fiumano
Nella prima lettera di Odette Grazzina, del 9 febbraio 1946, c’è l’affanno del caricamento dei mobili e masserizie “di G.” su un vagone ferroviario. Probabilmente “G.” sta per il cognato dell’autrice dello scritto: “Giorgio Conighi”. È  fratello del destinatario. Nel 1946 egli è ormai esule a Trento, dopo essere stato incarcerato dai titini a Trieste, dove comandava la caserma dei pompieri (3) . Fu imprigionato perchè si rifiutò di esporre la bandiera rossa in caserma. Pure nel secondo messaggio qui riportato ci sono gli affanni per la spedizione di mobilia e masserizie, leit-motive dell’esodo giuliano.
Le persone citate in questi messaggi sloggiano da Fiume, senza passare dai Campi Profughi “per no portar via spazio a quei che i sta pezo de noi”. Essi non saranno censiti come profughi. Non entreranno nel numero totale ufficiale dell’esodo di 250 mila individui (stima al ribasso) fornito dagli storici, eppure sono esuli anch’essi! Ecco perché altri autori dell’esodo, come padre Flaminio Rocchi, hanno fornito una cifra superiore, pari a 350 mila fuggitivi totali.
Nel primo scritto ci sono i saluti di e per tante persone: il “parentado”. Ogni esule si porta un mondo intero dietro a sé, come si vede nelle altre due corrispondenze. C’è una gran tenerezza per il bambino “Carluccio”. Si tratta di Carlo Cristiano Guerrino Conighi (Fiume 24.07.1943 – Ferrara 2010). C’è persino un momento di festa dai Piva. Ci sono poi lo studio per gli esami universitari, le lezioni private di matematica, tanta vita quotidiana e varie comunicazioni familiari.
Si notano altri elementi. Non partono famiglie intere per l’esilio. Qualcuno tentò di uscire in quel modo dalle terre perse, ma le autorità iugoslave, respingevano tutti. Oppure lasciavano passare solo qualcuno, dividendo le famiglie e centellinando i permessi per il diritto d’opzione. Allora gli italiani di Fiume, come pure in Istria e in Dalmazia, partivano soli. “Rico è partito l’altra mattina, solo però” – si legge nella prima lettera.
I figli venivano assegnati a parenti stretti o a conoscenti fidati. “Certo che Carluccio ha viaggiato un bel po’ prima di arrivare da noi!” – è scritto nella parte finale della terza lettera.
C’era l’esodo da Fiume, dall’Istria e da Zara. Poi le famiglie si ricomponevano nelle altre città del resto d’Italia. C’era la paura del rapimento dei giovani, per convincere gli adulti sospetti “nemici del popolo” a consegnarsi alle autorità titine. Ci sono, infine, dei messaggi interiori.
Quando, pur riferendosi ai parenti, l’autrice scrive che: “Tu non sai che qui le tue cartoline le leggono o meglio le decifrano tutti prima di me che all’ora della posta non sono certamente a casa”, vuol dire, sotto sotto, di stare attenti alla censura. Molti esuli, per ovviare a tale inconveniente, utilizzavano mandarsi biglietti, tramite dei compaesani in viaggio, in modo che non fossero letti e resi noti all’Ozna, la polizia politica di Tito, che con informatori prezzolati era attiva persino nei Campi profughi. L’Italia aprì 140 Campi profughi per gli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, che furono attivi sino agli anni sessanta, quando furono edificati i Villaggi giuliani (4) .
Tali scritture sono determinanti “per risollevare il morale” dei profughi, come si legge nell’incipit della seconda lettera, datata 12 febbraio 1946. Poi si vengono a sapere uno stipendio del tempo (lire 8.000), il costo del riscaldamento a legna e come riuscivano ad alimentarsi in quel periodo di dopoguerra.
Con la terza lettera, priva di etichette e segni della censura iugoslava, si capisce che la coppia è ormai in esilio nel resto d’Italia. Odette a Treviso e Ferruccio a Roma, che sarà la città del definitivo domicilio di questi due fiumani. A Venezia ci sono pure i contatti col “Comitato”, evidentemente il riferimento va al gruppo locale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), per le pratiche di opzione dello “zio Paolo”.

3.    Fiume è il mio primo ricordo da bambino
Questo è un altro caso. “Che cosa ricordo di quando ero bambino? Mi ricordo la città di Fiume” – inizia così il racconto dell’architetto Franco Pischiutti, di Udine. “Mi ricordo Fiume da bambino, andavo dallo zio Enrico Bellina che lavorava nell’edilizia, era un bravo disegnatore. Io ero ospite da loro nelle vacanze, giocavo con i cugini. Poi ricordo le spiagge di Volosca, Cantrida e Abbazia. Lo zio Bellina ha costruito alcune ville, come ad esempio villa Susmel. I Bellina sono originari di Venzone, in provincia di Udine; si erano trasferiti a Fiume nel 1930, per il lavoro di zio Enrico, che aveva un’impresa. Mi ricordo che ha lavorato per il restauro del castello di Villa del Nevoso.
Con la guerra il lavoro venne a mancare e loro sono venuti via da Fiume nel 1943, appena in tempo. Hanno venduto l’impresa e la casa e sono tornati in Friuli, a Venzone. Non era sicuro stare a Fiume. Poi lui ha lavorato nella TODT e, dopo la guerra, è emigrato in Venezuela.
Non si sentono esuli, ma ricordano con tanto piacere Fiume. C’erano tanti bei negozi. La mia famiglia ed altri parenti tornavano da Fiume con vari prodotti comprati a Fiume a buon prezzo, come il caffé, il sapone…
A Fiume c’era un altro zio con delle mie cugine. Era Giacomo Pischiutti, dello “Min”, con quattro figlie e abitavano a Cosala. Min lavorava al silurificio. Diceva che faceva stampi in legno per i getti in ghisa. Ricordo di Fiume Via Fratelli Branchetta. Assieme ai miei cugini andavamo in Piazza Regina Elena, dove funzionò il primo semaforo della città. Andavamo a guardare le luci che si accendevano e spegnevano. Lì vicino c’è la chiesa dei Cappuccini. Zio Giacomo Pischiutti e la sua famiglia sono venuti via da Fiume alla fine della guerra. Sono andati a Genova, perché lui è stato assunto all’Ansaldo”.

4.    Perché scappare da Fiume, dall’Istria e dalla Dalmazia?
La risposta può sembrare esagerata, ma non è così. L’hanno fornita vari autori, come Graziella Fiorentin, da Canfanaro d’Istria. Gli italiani di Fiume, dell’Istria e della Dalmazia fuggono per non finire in foiba, annegati o, comunque, eliminati.
I titini, per vendetta contro i soprusi patiti sotto il fascismo, attuano dopo il giorno 8 settembre 1943 la pulizia etnica contro gli italiani e contro chi non si arruolava nell’esercito partigiano di Tito. Era pure una “lotta di classe” delle classi sociali inferiori contro i “capitalisti”. Per essere “capitalista” era sufficiente, nella testa dei rivoltosi, possedere un negozio. Molti erano gli italiani con una piccola attività di esercente. Fatti fuori loro, chi restò nelle terre perse poteva ballare il kolo e inneggiare a Tito, ma era senza rifornimenti per la vita civile. Le botteghe erano chiuse. Dopo il 1945-1947 c’era una specie di socialismo ultraproletario, ma non c’erano il sapone, la frutta, le lamette da barba, i piccoli indumenti personali. In compenso fioriva il mercato nero. 
A settembre del 1943 a Canfanaro i partigiani, molto ben armati, dopo avere ucciso dei militi fascisti asserragliati in municipio si rivolsero alla caserma dei carabinieri, perché si arrendessero. Intervennero il parroco e il dottor Fiorentin, il medico condotto, per delle trattative. Così il capo partigiano, dopo i colloqui, cambiò idea e non volle più fucilarli in piazza. “Dobro, dobro, bene… lasciamoli tornare a casa… Ditegli che si arrendano e che buttino le armi dalla finestra… – scrive Graziella Fiorentin, a pag. 42-44, nel suo Chi ha paura dell’uomo nero? Il romanzo dell’esodo istriano, del 2005” (5)  . Dopo averli fatti prigionieri, compreso il maresciallo D’Amato, due partigiani coi mitra spianati accompagnarono i carabinieri fuori dal paese; c’era con loro anche il medico. Vicino al cimitero li fucilarono, nonostante un altro intervento del dottor Fiorentin, che si sentì dire: “Voi vi lasciamo in vita solo perché siete medico e ci servite”. E, tra le risate, aggiunsero: “Meno italiani fascisti, meno vipere. Tu, attento dottore: la prossima volta può toccare a te”. Alcune settimane più tardi la famiglia Fiorentin fuggì, assieme al capostazione Paoletti, finendo profughi a Venezia e Chioggia.
In una foiba vicino ad Albona un pastore croato, calatosi con una fune per rifornirsi di uova di piccione dai nidi, che i pennuti costruiscono nei primi tratti dell’anfratto, scoprì che: “La roccia era coperta di cadaveri! – aggiunge Graziella Fiorentin, a pag. 101-102, nel suo Chi ha paura dell’uomo nero?, già citato – Sì cadaveri! Alcuni nudi, altri con abiti civili. Altri con divise militari. Cacciai un urlo e cominciai a tremare come una foglia. Risalii dal precipizio: avevo la nausea e mi sentivo mancare, per la scena e per l’odore… Erano tanti corpi sospesi, là su quello spuntone, ma quanti altri potevano essercene più giù, nel fondo della foiba?”. Naturalmente il pastore aveva detto alla famiglia Fiorentin, riferendosi ai partigiani titini, che dilagavano dopo il 1943: “Sono bosniaci, sloveni serbi, oltre che croati. Parlano di morte e di vendette. È più sicura la città. Non dovrei dirlo… Sono croato, ma non amo la guerra e la vendetta: cerco di vivere in pace con tutti. Ascoltate le mie parole: andatevene voi italiani. Scappate a Trieste… Tra poco sarà troppo tardi”.

5.    A Zara i titini gli tagliarono le mani
Un altro caso, già citato in altre mie ricerche. Questo è assai tragico. Si chiamava Mario Trigari. Era nato a Zara nel 1914 e morì a Udine nella parrocchia della periferia sud della città il 7 novembre 1978, come si legge su L’Antenna, il bollettino parrocchiale di S. Pio X. Il racconto di questa famiglia mi è stato riferito, il 1° dicembre 2007, da sua figlia, Renata Trigari (Zara 1945-Udine 2009), una brava insegnante dell’Istituto magistrale “C. Percoto” di Udine.
“Siamo venuti via da Zara nel 1948 – ha riferito la signora Trigari – ci siamo fermati tre giorni al Campo Profughi di Via Pradamano”. Per il grande assembramento di persone “la mia mamma Lidya Livich se la ricordò per un bel pezzo la puzza di pipì del Campo Profughi”. Negli edifici dove oggi c’è la scuola “E. Fermi” funzionò un Centro di Smistamento Profughi dal 1947 al 1960, dove passarono circa 100 mila rifugiati dalle terre cedute alla Jugoslavia. Su questo argomento, nel 2007, ho pubblicato Il Campo Profughi di Via Pradamano e l’associazionismo giuliano dalmata a Udine (6)  . Nel 2015, essendosi esaurito il citato volume, è uscito con la mia collaborazione “Ospiti di gente varia. Cosacchi, esuli giuliano dalmati e il Centro di Smistamento Profughi di Udine 1943-1960”, di autori vari.
Mi è capitato di presentare tale tematica ad oltre 4.300 persone in una quarantina di occasioni a Udine, Pordenone, Trieste, Codroipo, Povoletto, Martignacco, Moimacco, Cividale del Friuli, Palmanova, Cervignano del Friuli, Clauiano di Trivignano Udinese e a Bibione di San Michele al Tagliamento, provincia di Venezia e in undici scuole della provincia di Udine, raccogliendo consensi e nuovi contatti di profughi. Dalla metà degli anni novanta ho realizzato quasi 200 interviste ad esuli o amici di esuli giuliano dalmati.
Come stavano i bambini dell’esodo? Quanti debiti di accudimento hanno registrato gli psichiatri e gli psicologi, diciamo a partire dagli anni 1980, riguardo ai «cuccioli dell’esodo» come li ha definiti Michele Zacchigna  (7) nel suo "Piccolo elogio della non appartenenza. Una storia istriana", del 2013.
Pure Graziella Fiorentin denuncia tale stato di scarsa adattabilità, a pag. 265, del suo già citato  Chi ha paura dell’uomo nero?, quando la famiglia esule a Chioggia, la mette a pensione da una zia a Padova, per motivi di studio: “ La mia solitudine iniziò allora, quando mia madre, per il mio bene e in buona fede, fece l’errore di allontanarmi dalla famiglia proprio quando, alla soglia dell’adolescenza, con un arretrato di serenità ancora da riscuotere, avrei avuto la necessità di avere accanto a me i miei cari”.  (Il corsivo e dello scrivente).
Continuo, ora, con l’intervista alla fonte orale. Come stavano i bambini dell’esodo? “So che la famiglia Marzari, nel 1947 – ha aggiunto la signora Renata Trigari – era riparata a Trieste in una camera ammobiliata e, non potendo tenere i bambini, per imposizione degli affittacamere, dicevano ai loro piccoli di tacere o di parlare piano e loro sono cresciuti così”. I figli dei profughi dovettero subire varie peripezie familiari, dato che “mio padre ritornava a casa dall’ufficio dov’era impiegato – ha detto l’intervistata – e ci raccontava di avere trovato per l’ennesima volta il cartello sulla scrivania con la scritta: “Morte ai profughi”. Mario Trigari, nonostante tali offese, che rasentavano il razzismo, restò a Udine e nella sua parrocchia di adozione morì nel 1978.
Poi ci sono i ricordi tragici. La signora Trigari, il cui nonno fu Rodolfo Trigari, direttore della scuola professionale di Zara, ha ricordato la tremenda fine dello zio Umberto, trentenne. “Era fratello di mia madre – ha spiegato – era bello come Rodolfo Valentino e mia madre lo invocò persino sul punto di morte”. Perché? Che cosa gli successe? “Era un famoso parrucchiere di Zara – concluse la signora Trigari – e i titini gli tagliarono le mani, per spregio a chi creava la bellezza italiana; poi lo affogarono, mentre mio papà e gli altri zii Nicolò e Giuseppe erano loro prigionieri”. Il nome di Umberto Livich compare, in effetti, nel volume di padre Flaminio Rocchi, in un elenco che riproduce alcuni tra i 900 zaratini uccisi dagli slavi nel 1944-‘45, ma non era noto il modo truculento della sua morte (8).  

6.    Le fonti orali
Le informazioni e le prime considerazioni sulla corrispondenza dell’esodo mi sono state riferite da Miranda Brussich, Helga Maria Conighi, Franco Pischiutti e Maria Rudan riguardo alle città di Fiume e di Pola. Poi ci sono Silvio Cattalini, Renata Trigari e Elvira Dudech, da Zara, nonché le istriane Elpida Chelleris da Isola d’Istria e Narcisa D. da Lussingrande (9)  .

La seconda lettera di Odette Grazzina (il recto del manoscritto), datata Fiume, 12 febbraio 1946. Si noti, alla seconda riga, l'inizio della missiva: "Mio caro Uccio"

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1.     La prima lettera

[Fiume,] 8/II/46
Carissimo,
perdonami se non ho mantenuto la promessa di scriverti subito, ma ho avuto due giornate così cariche di lavoro che non sono andata neppure a scuola e tutto per i mobili di G. Mercoledì ho dovuto correre di qua e di là per le ordinazioni, poi finire di legare e inchiodare, cosa che ho fatto quasi tutto da sola, ieri poi alle sette meno un quarto ero già alla stazione, ma siccome mancavano i vagoni ho dovuto aspettare, con la paura di dover passare anche la notte insieme ai mobili, fino alle sei e mezza di sera ora in cui fortunatamente tutto era pronto.
Questa mattina ho pagato e così, se Dio vuole, spero che questa mattina siano partiti. E così questa seccatura è passata. Non ti dico la mia stanchezza. Come conseguenza dovrei restringermi tutti i vestiti, cosa che farò proprio molto volentieri perché almeno un po’ di ciccia se ne sta andando.
Bene no?
Spero questa sera di andare da Fernando a prendere il sacco e l’altra roba. Papà spera di andare a Trieste lunedì.
Io credo di avere gli esami per la fine del mese, ora sto studiando in modo da poterli sostenere anche questa volta brillantemente come al solito. Tu che ne dici?
Le mamme stanno tutte e due bene e mi incaricano di farti i loro più cari saluti. Nonno sempre in gamba ti pensa e sente la mancanza della tua compagnia.
Rico è partito l’altra mattina, solo però.
Ora ho incominciato a fare le dispense di chimica e mi portano via parecchio tempo, speriamo che almeno mi portino i loro profitti con quello che le ragazze potranno imparare e capire più facilmente.
Mi dimenticavo di dirti il programma svolto nella domenica passata, pensa che con Oretta, Nida e la Lolo siamo andate nientemeno che da Piva [una pasticceria di Fiume?], che inaugurava il the-room. Non fare il broncio, però, perché non ho ballato proprio per niente, facevo da chaperon [persona anziana che accompagna e sorveglia delle giovani donne, francese] alle signorine ascoltando  così un po’ di musichetta allegra e passando alla meno peggio due ore. Non è stato un divertimento, perché mi ha portato tanta tristezza vedermi così senza te e rimembrando quelle poche volte in cui c’eravamo andati insieme e pensando chissà quello che tu facevi in quelle ore.
Le mie amiche pare che ci abbiano preso gusto, poiché è già la seconda volta che vanno ad un trattenimento simile e infatti loro hanno anche ballato. Cercano, cercano, ma non so se troveranno se troveranno ancora.
Speriamo, sarebbe un bene anche per loro dato che gli anni passano. Se ti dispiace che ci sia andata, dimmelo sinceramente ti prego, tu sai che per noi segreti non esistono e stanno male. Non è così?
Ho qui un caro giovanotto che mi sta guardando così dolcemente, forse mi vuol consolare, forse mi vuol dire qualche cosa per te, ma purtroppo guarda, guarda e non parla, mi ascolta invece e chissà che non ti trasmetta così nell’aria le mie parole e non ti dica che tante volte due lagrime lo hanno bagnato ma lui non ha protestato. Ne sei geloso? Credo che abbia fatto colpo anche sulle mie scolare, perché quando faccio lezione qui in camera, le vedo ogni tanto assorte in contemplazione invece di essere assorte nelle formule e in quei dannati problemi di geometria che tante volte anche per me sono un’incognita.
Mi dimenticavo quasi di domandarti una cosa: hai fatto riserva tanto grande di cartoline postali, tanto da non scrivermi neanche una lettera? Tu non sai che qui le tue cartoline le leggono o meglio le decifrano tutti prima di me che all’ora della posta non sono certamente a casa. Te li immagini il nonno e la zia con occhiali, lenti e tutto l’armamentario e che poi delusi mi aspettano dicendo di aver tentato di leggere, ma invano. Possibile che non ci sia niente di nuovo solo fra noi due?
Qui tutto procede normalmente ti pensiamo più di quanto tu non creda ed io vorrei sapere un po’ di più come occupi le tue giornate.
Sono arrivata al fondo, al momento del congedo e dei saluti di tutto il parentado, del bacio della tua mamma [Amalia Rassmann in Conighi, Trieste 26.03.1887 – Udine 23.01.1954], di Carluccio che diventa ogni giorno più caro e birbante. Da me so che gradirai un forte abbraccio e due dozzine di baci, ti bastano fino ai prossimi?

                            tua Ette


Busta del terzo manoscritto di Odette Grazzina con timbro tondo e data del "24.VIII.1949 Venezia"

Volti dell'esilio. Odette Grazzina e Carlo Ferruccio Conighi a Venezia nel 1948. Fotografia Aguiari

2.    La seconda lettera

[Fiume,] 12/II/46
eccomi di nuovo con te;la tua di oggi, come del resto tutte le altre, arriva in buon punto per risollevare il morale che da giorni è proprio a terra, specie quando poi mi accorgo che i soldi se ne vanno a velocità spaventosa. Ho avuto ieri lo stipendio di febbraio £ 8.000, dimmi un po’ tu; 1.000 ne devo dare alla zia per la stanza, 350 alla donna per la legna, se ne consumano due quintali alla settimana; insomma è un disastro. Tanto che ora la Mimma cucina per me e per lei sul fornello elettrico e tu sai che ci accontentiamo di ben poco; ho addotto come pretesto il mio vecchio mal di stomaco, così nessuno si offende.
Che ne dici? Che vuoi mio papà ora è di nuovo molto munifico, tanto che mi ha regalato in una settimana un litro d’olio, 400 gr di lardo, due chili di patate, ½ kg di zucchero e più di un chilo di riso. Se io consegno tutto per la comunità in una settimana si finisce come si sono esaurite tutte le provviste che avevamo portate noi e quelle comperate anche dopo da me, perché tu ben conosci la voracità di tutti i componenti la famiglia compresa la donna e specialmente questa, che diventa ogni giorno più insolente. Perciò dato che la Mimma non ha niente da fare ed io sono sofferente (ma questa è una piccola scusa che deve restare fra noi) facciamo cucina a parte e non ci si pensa più.
Spero che non ti dispiacerà, ma Ferruccio mio, ma anche noi dobbiamo pensare a fare un po’ di economia ed io ho visto che in queste tre settimane si è speso tanto per la casa e per la legna da spaventarmi. Sai che con tutte le lezioni e lo stipendio non mi sono comprata un paio di calze! Perciò stringiamo i reni, specie se devo venire a fare esami, non ti pare?


Cartolina di Fiume del 1951, viaggiata il 16 novembre per Udine. Edizioni RVJ Zagreb

Sono contenta che tu ti sia informato per me, sarebbe proprio bello, non credi. Sistemerei la Mimma da Pieretto o forse lui potrebbe trovare una casa e si potrebbe tirare un po’ avanti.
Speriamo che Raimondi ti risponda, almeno lui facesse qualche cosa, certo è che se può non ne farà a meno. Perché non vai anche tu da lui? Troppa spesa? Fai come credi, ad ogni modo fra non molto dovrai aspettarmi a S. Marco.
Sono contenta che tu abbia letto la cartolina inviata a Zanetto, veramente veramente doveva essere un segreto fra lui e me e invece mi ha tradito, vatti a fidare degli uomini che sono amici del marito; per questa volta gli perdono perché ti ha arrecato piacere; dovevo pure affidarti a qualcuno, no?
Ti prego, però non farti cattivo sangue se il portafoglio dimagra, vedrai verrà il giorno in cui non dovremo tener duro e poi che conta il denaro, anche se si dice “argent fait… con quel che segue.
Dì a Giannozzi [conoscente di famiglia] che gli manderò tutti i documenti relativi al pagamento per il trasporto dei suoi mobili, in modo che si possa far rimborsare dalla banca. 
Per la mia lana va bene, vuol dire che la ritirerò io. Come stai a sigarette? Io benino, ogni tanto ne fumo una; giovedì scorso però dai nervi che avevo ne fumai un pacchetto e mezzo. Non c’è male, senza conseguenze però.
Ieri finalmente ho letto la tua lettera scritta a B. ma le ho dato semplicemente una scorsa, perché mi è stato detto che non era per me; tua sorella [Helga Maria Conighi, Fiume 16.10.1923 – Udine 2000] è arrabbiata con zio G. perché ha scritto a Leo [amico di Helga], lei dice che non ne capisce la ragione e che preferirebbe che non ficcasse il naso nei suoi affari; pare che il viaggio a F. [Firenze? Una parte della famiglia sarà esule lì] si farà per i primi di marzo; forse passeranno anche da te.


Cartolina di Fiume del 1956, viaggiata il 7 novembre per Udine. Edizioni: Zadružne knjige, Beograd. Snimak: M. Pavlović


Il nonno sta sempre bene e in gamba, mi incarica di dirti che ti ringrazia tanto per essere andato al cimitero della sua mamma e ti saluta come pure zia Maria [Maria Regina Conighi, Trieste 23.10.1881 – Udine 16.04.1955]. La Mimma ti ripete quello che ha scritto nella lettera precedente e mi sprona molto ad andare a fare esami; io però vorrei far passare i giorni di malattia, altrimenti mi stancherei troppo, non ti pare? E poi una moglie che sta poco bene non credo che sia molto desiderabile; è inutile che tu cerchi di negare perchè so che è così.
Fernando ti ha scritto, gli ho dato il tuo indirizzo che mi è stato portato dalla tua ex collega; sicché il signore se la passa alla Colomba?
Spero che non farai come la Gigliola; a proposito perché non faresti una scappata a Martellago? Forse ci si potrebbe sistemare la Mimma? Alla Lora scrivi pure, però non si è mai più fatta vedere. Al suo suocero hai scritto? Eccoti i suoi saluti. A casa dai tuoi vado spesso, non però ogni giorno perché ho da fare fra lezioni e scuola. Tante cose care dalla Mimma. Da me saluti a Zanetto, alla cui mamma H. ha portato le chiavi, almeno così spero. Alla Stufetta un abbraccio e tanti baci da farla scottare
                    Odette

Saluti dai B. la piccola di Fernando si raccomanda per il profumo.
Non mi hai detto che la mia carta è bella.  




Cartolina di Fiume del 1965, viaggiata il 2 agosto per Udine e spedita da Odette Grazzina, Carlo Ferruccio Conighi, Giò e Bonèka. Edizioni: Generalturist Zagreb. Fotoslužba

3.    La terza lettera

Treviso, 24 agosto 1949
Carissimo Ferruccio mio,
ieri mattina finalmente ho letto la tua lunga lettera, più che letto decifrato in qualche punto, ma così è durata di più. Mi dici di P. vedrai che tutto andrà per il meglio intanto però non cambiare ufficio almeno questo è il mio parere, e soprattutto stai calmo, specie da che la tua vicina se n’è andata in ferie. La Volpe è tornata? Vuoi che scriva una cartolina a P. da Venezia così forse si ricorderà meglio di quanto aveva promesso?
Ieri mattina con Giannozzi e Giò [amici di famiglia] siamo andati a Venezia, loro direttamente al Lido, io invece al Comitato per domandare come si potrebbe fare con zio Paolo e mi hanno consigliato di farmi rilasciare un certificato di avvenuta opzione e mandarglielo così questa mattina devo riandare all’Agenzia a Venezia a ritirarlo, per fortuna viaggio e spese di soggiorno sono rimborsate. Pensa che le 10.000 lire sono sempre intere anche per una certa prevenzione materna che i soldi è meglio non cambiarli. Meglio così!
Sono stata anche dai Perini al Lido, ma erano andati a fare una gita così ci ritornerò oggi. Il bagno è stato discreto, ma niente di speciale, anche perché il sole ogni tanto se ne andava, per quanto il caldo si rifaccia sentire e bene.
Non ho capito molto bene la faccenda del furto avvenuto in cantina; che dicono le maranteghe [donne vecchie, noiose, logoranti, dialetto fiumano]  (10) che insistono tanto perché portassi le mie coperte e il mio sedile. Non hanno messo un’altra catena alla porta?
Qui la vita al solito sotto la pergola alla mattina, dove ora ci sono le nuove panchine e il tavolo rustico; alla sera non si può cenare all’aperto perché fa troppo fresco; pomeriggio sul davanti in mezzo ai fiori che fra poco avranno tutti un nome proprio o un numero visto e considerato che li conoscono tutti anche il più piccolo e il più racchio. Purtroppo è tornata l’inquilina col figlio, che ha mania di distruggere le costruzioni di Giò, e allora non ti dico quest’ultimo che ha fatto lega con i bambini della villa vicina viene a lagnarsi da me e devo rimproverare quell’altro; però quand’è sera sono tutti sporchi da capo a piedi, in questo s’assomigliano alla perfezione.
Ceto che Giò fa dei lavori molto belli che sono ammirati anche dalle persone del vicinato. Dì alla Bocia che ha proprio dei magnifici colori, mangia parecchio, sarà forse perché a forza di stare per la terra e il fango è diventato una specie di maialetto.
Però che cenetta ti sei fatto, addirittura pollo, e poi ti lagni?
Ieri gentaglia fiumana a Venezia non ne ho vista e spero anche di non vederne oggi.
Dalla Nida non ho avuto nessuna partecipazione perciò non so se si sposa oggi o domani, forse tu saprai qualche cosa in merito e potrai provvedere in tempo a mandarle i fiori.
Che la Gina sia una pandola [persona sciocca, dialetto fiumano] lo sapevi da sempre,ma fino al punto da rispedire la raccomandata con l’indirizzo combinato in quel modo non credevo c’arrivasse! Certo che Carluccio ha viaggiato un bel po’ prima di arrivare da noi!
E la Melina è arrivata? Avete già sentito la sua potente e invitante voce? Certo che adesso non oseranno nemmeno far dormire Clara nello studio dell’ingegnere dopo tutto quello che è successo con il telefono.
La notte hai freddo? Hai preso la coperta che è nell’armadio di Adele? Matilde è venuta? Mi raccomando Ferruccio mio, stai tranquillo mangia bene riposati, dormi, non fumare troppo e se ritorna il caldo e vai ad Ostia, non andare troppo fuori. Capito?
Io con la raucedine meglio, spero di trovar Nino e farmi dare qualche cosa per il futuro. Sto facendo ginnastica tutte le mattine, ho eliminato il burro e la pasta perché ho l’impressione che il soggiorno udinese mi abbia fatto un brutto scherzo (ingrassamento breve accidenti!) per forza siamo stati più a letto che in piedi quasi con quella pioggia!
Grazie in ritardo alla mamma e G. per il Tokai! [Il riferimento è al vino Tocai friulano, considerando che una parte della famiglia è esule a Udine].
Ferrucietto devo darti tanti bacetti e scappare alla filovia! Uff. [non c’è] mai pace a questo mondo.

                    tua Odette



Forse non occorebbe commentare questa cartolina. La data dice tutto: è il giorno della riunificazione di Trieste all'Italia. Nonostante la pioggia, c'è tanta gente. I bersaglieri sulla jeep guardano stupiti il calore della città. Viaggiata il 28 ottobre 1954 per Udine e spedita da commossi parenti triestini dei Conighi, esuli nel capoluogo friulano

NOTE

1)  Boris Gombač, Atlante storico dell'Adriatico orientale, Bandecchi & Vivaldi Editori, Pontedera (PI), 2007.

2)  Alfredo Bonelli, comunista italiano, si trasferì nel dopoguerra a Fiume per raggiungere la moglie croata e per costruire una rete clandestina di comunisti contrari al regime jugoslavo e fedeli all’Urss. Cfr: Giampaolo Pansa, I gendarmi della memoria, Sperling & Kupfler, 2007, pag. 371.

3)  Giorgio Alessandro Conighi  (Fiume 07.06.1892 – Trento 04.01.1977) fu volontario negli alpini nella Grande Guerra e legionario fiumano (1919-1924). Laureatosi in ingegneria civile fu comandante del Corpo Pompieri di Fiume e dei Vigili del Fuoco di Trieste e Trento.

4)  Guido Rumici, Catalogo della mostra fotografica sul Giorno del Ricordo, Roma, ANVGD, 2009. Padre Rocchi scrisse invece di “109 Centri Raccolta Profughi (CRP)”. Vedi: Flaminio Rocchi, L’esodo dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati, Roma, Associazione Nazionale Difesa Adriatica, 1990, p. 194.

5) Graziella Fiorentin, Chi ha paura dell’uomo nero? Il romanzo dell’esodo istriano, Milano, Mursia, 2005. Con questo romanzo, Graziella Fiorentin, esule a Padova, ha vinto il Premio del Presidente nel concorso nazionale «Firenze – Europa 2001», il Premio nazionale «Santa Margherita Delpino 2002» ed è stata finalista segnalata  al Premio internazionale «Città di Milano 2002».

6)  Elio Varutti, Il Campo Profughi di Via Pradamano e l’Associazionismo giuliano dalmata a Udine. Ricerca storico sociologica tra la gente del quartiere e degli adriatici dell’esodo, 1945-2007, Udine, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Comitato Provinciale di Udine, 2007.
Poi si vedano i tre seguenti contributi: E. Varutti, Cara maestra, le scrivo dal Campo Profughi. Bambini di Zara e dell’Istria scolari a Udine, 1948-1963, «Sot la Nape», 4, 2008, pp. 73-86. Franco Sguerzi – E. Varutti, La nostra parrocchia di San Pio X a Udine 1958-2008. Cinquanta anni di memorie condivise, Udine, Academie dal Friûl, 2008, pp. 71-72. Roberto Bruno, Elisabetta Marioni, Giancarlo Martina, Elio Varutti, Ospiti di gente varia. Cosacchi, esuli giuliano dalmati e il Centro di Smistamento Profughi di Udine 1943-1960, Istituto Statale d’Istruzione Superiore “B. Stringher” Udine, 2015. Poi, molti altri contributi sono pubblicati nel mio blog del sito web “eliovarutti.blogspot.com”.

7)  Michele Zacchigna, Piccolo elogio della non appartenenza. Una storia istriana, Trieste, Nonostante Edizioni, con una Postfazione di Paolo Cammarosano, 2013.

8) F. Rocchi, L’esodo dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati, cit., p. 515.

9) Elenco delle fonti orali ascoltate a Udine dallo scrivente, se non altrimenti indicato:                               1.    Brussich Miranda, vedova Conighi (Pola, Regno d’Italia 11 agosto 1919 – Ferrara 26 dicembre 2013); questa esule da Fiume è stata intervistata (d’ora in poi: int.) dallo scrivente a Ferrara in varie occasioni, dal 17 agosto 2003 al 13 agosto 2010, in presenza della figlia Daniela Conighi.
2.   Conighi Helga Maria, vedova Orgnani (Fiume, Regno d’Italia 1923 - Udine 2000), int. del 22 agosto 1999.
3.   Pischiutti Franco (Gemona 1938) ha vissuto a Fiume da bambino, dagli zii, int. del 26 giugno 2015.
4.   Rudan Maria, vedova di prime nozze Mohovic, poi vedova Lehmann (Fiume, Impero d’Austria Ungheria 1906 - Bolzano 2008) “Zia Minne”, int. a Bolzano, dov’era esule, il 17 luglio 2003.
5.   Cattalini Silvio (Zara, Regno d’Italia 1927), int. del 23.06.2009 e del 10.02.2014; è il presidente del Comitato Provinciale di Udine dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) dal 1972.
6.   Dudech Elvira (Zara, Regno d’Italia 1930 - Udine 2008), int. del 28.01.2004 e del 15.12.2007.
7.   Trigari Renata (Zara 1945 – Udine 2009), int. del 1 dicembre 2007.
8.   Chelleris Elpida vedova Nicola (Isola d’Istria 1930), int. del 3 e del 30 maggio 2006.
9.   Narcisa D., detta “Cisa” (Lussingrande, Pola, Regno d’Italia, 21 dicembre 1928), alla data dell’int. era pensionata, risiedendo a Percoto, Pavia di Udine (UD); int. a cura di Monica C. del giorno 1.6.2005. Quest’ultima intervista è frutto di una ricerca scolastica dell’Istituto “Stringher” di Udine, guidata dell’insegnante d’Italiano e Storia, professoressa Elisabetta Marioni.
Ricordo gli intervistati e sono loro grato, per la gentile collaborazione prestata. Ringrazio la professoressa Marioni, la sua allieva e la nonna intervistata per aver concesso la pubblicazione dei testi; nonna e nipote non hanno consentito, tuttavia, alla segnatura del cognome per esteso.

10)  Salvatore Samani, Dizionario del dialetto fiumano, a cura dell’Associazione Studi sul dialetto di Fiume, Venezia-Roma, 1978.

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Questo articolo rientra nelle attività del Centro di ricerca, documentazione e produzione culturale sull’esodo giuliano dalmata, per raccogliere, testi, documenti, interviste e fotografie di quei particolari momenti storici. Il Centro di ricerca è sorto all’interno del Laboratorio di storia dell’Istituto Stringher di Udine, di cui è referente il professor Giancarlo Martina.  È parte del progetto, sostenuto dalla Fondazione Crup, “Storie di donne nel '900”, che  ha ottenuto il patrocinio di: Provincia di Udine, Comune di Udine, Club UNESCO di Udine, Società Filologica Friulana, ANED, dell'Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione e della presidenza (ingegnere Silvio Cattalini) del Comitato Provinciale di Udine dell'ANVGD.

mercoledì 24 giugno 2015

La donna del chiosco sul Po, di Maurizio Mattiuzza

Un poeta fine che canta il mondo d’oggi: ecco chi è Mattiuzza. Ha vinto, nel 2014, con questa raccolta la sezione di poesie di InediTO – Premio Colline di Torino, XIII edizione. Le sue liriche affondano le radici nel passato, nei luoghi dove ha vissuto da giovane. Ariano Polesine, in provincia di Rovigo, è una località sul delta del Po che compare nel settimo verso della poesia che dà il titolo all’intera raccolta del 2015: “La donna del chiosco sul Po”. Il testo è edito da La Vita Felice, di Milano.



Chi era questa donna? E perché è addirittura finita nel titolo del suo quarto libro di poesie? Maurizio Mattiuzza ci regala, in questa sua poesia, un quadretto socio-economico italiano degli anni intorno al 1970, di cuant che al jere un frut (“quando era piccino”). Mi permetto di inserire qualche parola in lingua friulana – con traduzione – perché Mattiuzza è un poeta plurilingue. Perciò, pure il modesto recensore si sbizzarrirà in più lingue. Almeno con quelle del cuore: friulano (del papà), italiano, veneziano (della nonna) e trentino (degli studi universitari). In questo senso mi sembra di percepire una strana vicinanza esperienziale con questo grande poeta.
Egli nacque nei pressi di Zurigo nel 1965, per passare a vivere in Friuli dal 1976, ma c’è una nonna della Valsugana nella sua crescita linguistica. La se questa popetta trentinazza (“è questa bambina del Trentino”, bambina in senso figurato) che gli ha trasmesso le parole, le arie, gli accenti, le ninne nanne, nonché i fenomeni e le produzioni della cultura popolare – direbbero gli antropologi – della Valsugana, realtà economica di radicata tradizione contadina del Trentino, con uno sguardo alla fabbrica.
Allora la donna del chiosco sul Po è realmente esistita. E Mattiuzza ce la racconta poeticamente. Era una contadina che lavorava quotidianamente la terra con i suoi stivali di gomma, sognando il posto in una fabbrica. Negli anni 1960-1970 si sviluppò l’industrializzazione, soprattutto in Italia settentrionale. Ci furono pure le prime lotte sindacali.
La donna del chiosco sul Po non capisce gli operai col posto fisso che scioperano dietro i cancelli della fabbrica. L’unica sua paura è quella dell’acqua. Come nei proverbiali capitoli de Il mulino sul Po di Riccardo Bacchelli, del 1957, a portarsela via sarà proprio una lunga piena più larga di quella del Po, come scrive Mattiuzza.


Lo splendido libro di poesia è stato presentato il 21 giugno 2015 a Cividale del Friuli, nel sottoportico di Casa Costantini, nell’ambito della rassegna Mittelibro, con la presentazione di Michele Obit, che ha letto una versione in lingua slovena di una poesia di Mattiuzza.
Dopo le presentazioni di Torino e di Muzzana del Turgnano, il volume La donna del chiosco sul Po, ha goduto oltre che della incantevole location, con il delizioso frescolino cividalese, pure di un job enrichment, costituito dalla chitarra e dalla voce di Renzo Stefanutti, con la sua affascinante e coinvolgente variante carnica. “Par fuarce, o soi di Dalès!”(Per forza, sono di Alesso - frazione di Trasaghis) – mi ha detto Stefanutti, dopo il concerto – presentazione. E non è tutto!

Maurizio Mattiuzza

Non vorrei sembrarvi un venditore di piatti dei Baracconi di Santa Caterina, ma la serata di Cividale aveva un altro elevato valore aggiunto. È stata arricchita, infatti, dalla spumeggiante lettura di Stefania Carlotta Del Bianco, nonché dal contributo virtuoso e spettacolare di Susan Franzil al violoncello. I diciotto pezzi presentati, oltre ad un richiesto bis, sono filati via lisci... che neanche ti accorgi che il tempo passa. Erano solo in lettura, in italiano, friulano e sloveno, oppure sono stati anche cantati con l’accompagnamento degli strumenti citati, oltre a qualche percussione suadente. Ecco spiegato il nome che si sono dati i quattro artisti citati per questa “perfomance”: Alberi di Argan poetry Quartet.
Il libro, di cento pagine, è da leggere e rileggere, per assaporarlo pienamente in tutta la sua bellezza. Mattiuzza ci presenta qui, pure alcune esclusive traduzioni in lingua slovena (di Jolka Milič), in lingua asturiana (di Martìn Lòpez Vega) e greca (di Massimiliano Damaggio).
I suoi versi hanno una marcia in più. Alcune rime sono riprese da Gli alberi di Argan, la sua precedente raccolta poetica, del 2011.
Mattiuzza ha fatto parte del gruppo di poeti di Usmis, movimento letterario e musicale friulano degli anni 1990-2000. In quel periodo ha partecipato al collettivo artistico dei Trastolons. Ha scritto «La cjase su l’ôr» nel 1997. La seconda raccolta di poesie è del 2004 ed ha per titolo «L’inutile necessitâ(t)», editore Kappavu, con interventi di Luciano Morandini e del cantautore Claudio Lolli. Nel 2001 Mattiuzza, col cantautore nostrano Lino Straulino, ha pubblicato l’album «Tiere Nere». 

Poeti Trastolons sul palco.  Una "Reunion Trastolona al Cormòr nel 2010" dal sito web di:  lussia di uanis

Le composizioni artistiche di Mattiuza sono inserite nelle antologie, ove compare il poeta “beat” Jack Hirschman, oppure alcune firme della musica leggera italiana, come Elisa e Neffa. Mattiuzza ha vinto il premio «Naghèna d’Arjent» tal 2008. Dopo ha ricevuto il premio Città di Ceggia e, a Torino, per la rassegna «Onde d’arte in versi per l'Abruzzo». Nel 2009 si è portato a casa pure il premio "Laurentum", per una poesia inedita in italiano. Ha ottenuto la selezione al premio "Alda Merini" nel 2013. Con alcune liriche contenute nel volume appena uscito è stato recentemente inserito nella terzina finalista del premio nazionale "Mario Soldati".
«Mattiuzza fa un uso libero delle lingue nella sua poetica, perché è molto sensibile alla fonetica – ha dichiarato a Udine, nel 2011, Marina Giovannelli, scrittrice e critico d’arte – ed è sulla linea di Saba e di Morandini, ma menziona pure Giacomini, Zannier, Tavan, Endrigo e De André».
La poesia di Mattiuzza è stata definita “civile”, come quella di Pasolini del 1957-1960. Mattiuzza descrive i gruppi sociali, le loro problematiche, i conflitti ed i successi. Egli racconta della emigrazione, delle case operaie, del caffè autarchico delle piccole comunità montane, dei piccoli paesi abbandonati di montagna, del giro delle osterie, dei capannoni industriali con l’orologio dei Fratelli Solari, del mutuo da pagare, delle fabbriche che chiudono, dopo il sogno dell’industrializzazione e così via.
Mi sia consentita un’ultima considerazione - un po' divergente -, ma utile a fare un collegamento con la poesia civile di Pasolini in un modo del tutto personale, perchè Mattiuzza - a mio modesto parere - ne ripercorre le tracce... lis olmis, lis usmis.
Mentre Mattiuzza un po’ leggeva e un po’ recitava una sua poesia, dove è citato un gatto (forse è quella intitolata “In diagonale” nella raccolta fresca di stampa) nel cortile di Casa Costantini, che era allo scuro, alle spalle del Quartetto che si esibiva, spunta il gatto dei padroni di casa. Il felino era molto seccato di vedere tutta quella gente, tutti quei fili e sentire le voci amplificate. Poi è zompato via. “Povero come un gatto del Colosseo, / vivevo in una borgata tutta calce / e polverone, lontano dalla città…” (Pier Paolo Pasolini, Il pianto della scavatrice, II, in Le ceneri di Gramsci, 1957).

Renzo Stefanutti e Maurizio Mattiuzza

Nei versi di Mattiuzza compaiono altri animali. Sono nominati in vari contesti, in forma specifica o generica. Ci sono farfalle, delfini, conchiglie, draghi, pesci, uccelli, lucertole, rondini, allodole e ghiandaie.
Un mio amico, esperto di estetica, mi dice che persino nei toponimi, utilizzati da uno scrittore nel suo lessico, è possibile scorgere la sua Weltanschauung (ossia la sua “visione del mondo e delle cose”). Ecco perché i nomi dei luoghi, nelle odi di Mattiuzza, possono fornirci altre possibilità di lettura critica. A parte il “deus Padus” che fa la sua bella mostra sin dal titolo del libro, ce ne sono molti altri e di ogni continente, non solo delle terre nostre. Cincischiare sulle “identità fluviali”, come le ha definite Michele Zacchigna – nel suo libro intitolato Piccolo elogio della non appartenenza. Una storia istriana, Trieste, Nonostante Edizioni, con una Postfazione di Paolo Cammarosano, 2013 – non è che porti a molto, tuttavia può rappresentare la definizione di un campo di appartenenza.
La grossa questione è che bisogna fare in modo che non sia un campo di ortiche, zeppo di vipere, in cui un novello homo tribunus va a muoversi solo con la ruspa.
Del toponimo di Ariano dove, tra l’altro, è vivace il dialetto ferrarese, si è già detto. Anche l’Istria, nelle raccolte di Mattiuzza, è come il cammeo nei film dei grandi autori. Per non dire della Valsugana, che è quasi un assioma nella poetica di Mattiuzza, con la specificazione questa volta dei paesi di: Cismon, Solagna e Fontariva. Mi si permetta una digressione personale. Non potrò mai dimenticare un certo Paolo da Solagna. Arrivava ogni settimana alle case dell’Opera universitaria di Trento, dove si alloggiava, con un bottiglione di Clinto. “Sennò come te fa per bevere” – diceva con candida semplicità. L’acqua, per lui, serviva per la ruggine. Paolo era una persona veramente unica. Mi verrebbe da dire: un sociologo legato al territorio.
Tra i toponimi utilizzati da Mattiuzza c’è Padova, mentre come un fulmine a ciel sereno compare Fuerteventura – isola tropicale delle Canarie, Spagna – un  suo luogo di creazione dei versi.
Ci sono poi Berlino, l’Europa, l’Asia. Pure Sesto San Giovanni e Milano. Nella sezione delle traduzioni, possiamo trovare Atene, la Bosnia, Sežana (Slovenia), Duino, Poo de Llanes (nelle Asturie, Spagna), Braga, Roma, lo stato dello Iowa (USA) e Argan (Marocco).  

 La location della Casa Costantini a Cividale del Friuli, 21 giugno 2015. Maurizio Mattiuzza, a sinistra, Stefania Carlotta Del Bianco, Susan Franzil e Renzo Stefanutti per la presentazione de La donna del chiosco sul Po

lunedì 22 giugno 2015

Mario S., trovato in foiba. Arruolamenti partigiani forzati, 1943

La tematica delle foibe a Trieste è come un nervo scoperto. Lo è in tutto il Friuli Venezia Giulia, dove il ricordo di quei fatti storici è ancora vivo e può generare ancor oggi del dolore nei discendenti delle vittime delle uccisioni nelle voragini del Carso.
Ciò che si è scoperto con la seguente intervista è che nella foiba furono gettati un gruppo di nove partigiani titini del Carso, legati fra di loro col filo spinato. Al momento della riesumazione dei corpi si scoprì che uno solo presentava un colpo di arma da fuoco alla nuca, gli altri furono gettati nell’abisso vivi. E non fu un caso isolato. Incredibilmente uno degli infoibati, Mario Sedmak, fu estratto dalla buca ancora vivo, seppur in gravi condizioni di salute. Condotto all'ospedale partigiano di Bolnica Franja, morì nell’anno successivo. Al figlio di tale partigiano fu detto, alla sua morte, nel 1944, che avrebbe dovuto prendere il suo posto, pur essendo un minorenne.
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Alle pagine 111 e 112 del romanzo Rossa terra di Mauro Tonino, del 2013, c’è il riferimento al minacciato arruolamento di un giovane tra i partigiani titini, giunti in paese con dei cavalli rubati ai tedeschi.
È Marino Cattunar, figlio di Nazario, l’informatore di Tonino, a ricordare il fatto accadutogli nel suo paese natale, a Villanova di Verteneglio, in Istria, tra il 1943 e il 1944. Marino faceva la questua per il parroco. Prima di tutto i partigiani armati gli sequestrano i soldi, minacciandolo di non rilevare la rapina al parroco: “Se te vol esser vivo stasera”. Poi arrivò l’ultima frase. “Dopo pochi passi fermò il cavallo – racconta l’autore – e volgendosi verso di me, ancora immobile in mezzo alla strada, con un’aria sarcastica pronunciò ‘Te ga undici anni, se te avevi due di più, te ieri a cavallo con noi’, poi si volse di nuovo e ripartì”.
Si conclude questo articolo analizzando la tematica degli arruolamenti forzati nelle file partigiane della Divisione Garibaldi e del IX Corpus titino.


 Partizanska bolnica Franja / L'Ospedale Partigiano di Bolnica Franja, in Slovenia. Ringrazio per la diffusione, la fotografia è ripresa da:  www.slovenia-trips.com


Tale argomento desta oggi un certo interesse da parte degli studiosi, perché in contrasto con quella che si può definire l’epica della resistenza, che cominciò a crescere nel primo dopoguerra e in tutti gli anni 1950-1989. Solo dal 1990-2000 si iniziò a dubitare di certi fatti della lotta partigiana, soprattutto delle eliminazioni eseguite nel primo dopoguerra in Emilia nel cosiddetto Triangolo Rosso. Con ciò si vuole solo sostenere – come ha scritto Giampaolo Pansa, nel suo I gendarmi della memoria , Sperling & Kupfer, Milano, 2007– che non si può ignorare le pagine brutte della resistenza, glorificando soltanto quelle belle. 

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1.    Intervista su Mario «tirà su vivo dela foiba»

Domanda: Sai di qualcuno ucciso nella foiba?
Risposta: So che mio bisnonno è stato trovato in una foiba, nella località di Santa Croce, in Comune di Trieste. Era ancora vivo, era il 1943.
D.: Come si chiamava?
R.: Mario Sedmak, nato a Santa Croce nel 1884 e morto nel 1944 all’ospedale partigiano di Bolnica Franja, vicino a Postumia (dal 1947, Slovenia). Oggi i suoi resti riposano nel monumento dei caduti partigiani.
D.: Chi ti ha raccontato questi fatti?
R.: È stato mio nonno I. S., nato nel 1934 a Santa Croce; ho avuto queste notizie con difficoltà e, in lingua slovena, perché nonno Ivan dice sempre di non voler parlare dei fatti della guerra, per il grande dolore che gli tocca di riprovare.
D.: Chi l’ha gettato nella foiba?
R.: Non si è mai saputo.
D.: Forse una rappresaglia nazifascista? O di altre formazioni militari, come i belagardisti (Unità slovene volontarie in funzione anti partigiana, collaborazionisti dei fascisti italiani)?
R.: Non si sa. Le uccisioni in foiba avvenivano di notte e su di lui si sa solo ciò che hanno trovato.
D.: Cosa vuole dire?
R.: Vuol dire che altri partigiani e certi parenti degli scomparsi hanno cercato ed hanno estratto i corpi dalla foiba. Mario era l’unico ancora vivo, così è stato portato all’ospedale partigiano, dove è stato in coma fino al 1944, quando morì.
D.: Come l’hanno riconosciuto e quante persone erano nella foiba?
R.: L’ha riconosciuto il cane. Era con altri nove disgraziati legati assieme col filo de trinca (“filo spinato”, dialetto triestino). Ogni corpo era avvolto, anche le mani, di filo spinato. Uno solo aveva un colpo di arma da fuoco alla testa, perciò gli altri sono stati trascinati giù dal peso del primo della fila. So di altri casi simili, tutti compaesani. Sono tutti menzionati nel monumento ai caduti di Santa Croce.

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Intervistato: allievo Christian Ciacchi, Trieste 1995. Intervista effettuata a Udine il 12 gennaio 2015, a cura del professor Elio Varutti, Diritto e Tecniche Amministrative della Struttura Ricettiva, con la collaborazione di Elisa Dal Bello e Nicolò Salvemini, classe 5^ D Dolciaria. Coordinamento didattico: professoressa Carla M., Italiano e Storia, dottoressa Anna Maria Zilli, Dirigente scolastico dell’Istituto “B. Stringher” di Udine.
Cimeli militari della Seconda guerra mondiale e della guerra fredda. Elmetto italiano 1939-1945. Tascapane militare, periodo successivo al 1945, guerra fredda. Borraccia USA 1939-1954, forse appartenuta a un bacolo nero. “I bacoli neri, jera poliziotti vestidi de scuro, solo col manganel”. Fonte orale: signora Luciana Luciani, nata a Pola nel 1936, intervista di E. Varutti del 15 dicembre 2014, Udine. Si trattava di personale di polizia reclutato su scala locale (Trieste, Pola e l’Istria), oltre che nei paesi e colonie del Regno Unito, alle dipendenze degli alleati angloamericani, attivi a Pola, 1945-1947, e nel Territorio Libero di Trieste, 1945-1954. Gavetta di un alpino di Codroipo 1939-1945, con coperchio antecedente. È il contenitore in alluminio più grande. Gavetta del fante italiano G.G. di Percoto, 1939-1945. Il fante, con una punta metallica ha inciso il suo itinerario di guerra: “Perocotto, Udine, Ivrea, Bari, Durazzo, Scutari, Podgoriza, Nichsic, Slavnich, Lubiana, Carlovach, Finito”. Collezione privata Udine. Bustina partigiana, detta "titovka" di un appartenente al IX Corpus di Tito dell’Osvobodilna Fronta - Fronte di Liberazione della Jugoslavia, Collezione Gemma Valente, Bastajànawa, vedova Barbarino, Resia (Resia 1915-Udine 2008). Gruppo di studio sull’Ultimo Risorgimento, classe 4 ^ C Enogastronomia, anno scolastico 2014-2015. Coordinamento a cura dei professori Maria Carraria (Italiano e Storia), Elio Varutti (Diritto e Tecniche Amministrative della Struttura Ricettiva). Dirigente scolastico: Anna Maria Zilli. Istituto “B. Stringher”, Viale Monsignore Giuseppe Nogara, 33100 Udine, Italia.
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2.    Arruolamenti partigiani forzati

L’eccidio di Porzùs – in sloveno: “Topli Uork”, in comune di Faedis, provincia di Udine – provocò  l’uccisione, fra il 7 e il 18 febbraio 1945, di diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo, di orientamento cattolico, monarchico e laico-socialista, da parte di un gruppo di partigiani – in prevalenza gappisti (Gruppi di Azione Patriottica) – appartenenti al Partito Comunista Italiano.
Dopo di quel tragico fatto di guerra civile, nella zona del Collio e dintorni ci fu l’arruolamento forzato di giovani locali da parte dei partigiani comunisti della Garibaldi. Siamo nella zona tra Manzano, San Giovanni al Natisone e Cormòns. È il signor B.L. a riportarmi tali notizie, il 22 giugno 2015. Si riferiscono a suo padre Antonio (nome di fantasia, per riservatezza).
Piuttosto che i ragazzi sotto leva finissero nella Todt (a lavorare per i nazisti), o nella Milizia Difesa Territoriale dei fascisti, peggio, nelle Waffen SS italiane, i partigiani se li portano dietro in bosco. Il racconto fatto da Antonio, il requisito dai partigiani, continua così: “Si sapeva che Giacca voleva fare pulizia , allora, si veve plui pôre di lui che dai todescs (si aveva più paura di lui che dei tedeschi)”.
Giacca è il nome di battaglia di Mario Toffanin (Padova 1912 – Sesana 1999), il comandante partigiano che, su mandato del Comando del IX Korpus sloveno e dei dirigenti della Federazione del PCI di Udine, effettuò le uccisioni a Porzùs.
Tra i casi di eliminazione per il rifiuto di arruolarsi tra i partigiani titini c’è il fatto, scoperto nel 2015, dei giovani fratelli Mrak (Andrej, 30 anni, Alojz, 23 anni e Alojza, 17 anni), dei quali una minorenne, vengono catturati dalla polizia politica titina, portati in un bosco e fucilati.
I ricatti dei militi titini sul reclutamento dei giovani per il movimento partigiano gettano una cattiva luce su tutta la Resistenza. Certi giovani si rifiutano di passare coi titini e furono uccisi. “A Sarezzo di Pisino il 26 giugno 1943 – ha scritto Luigi Papo de Montona nel suo L’Istria e le sue foibe. Storia e tragedia senza la parola fine, Roma, Edizioni Settimo Sigillo, 1999, pag. 44 – fu ucciso l’agricoltore Giuseppe Ghersetti di Giuseppe, nato nel 1892, non iscritto al P.N.F. (Partito Nazionale Fascista), reo di essersi rifiutato di entrare a far parte del movimento partigiano slavo”.
Lo stesso Luigi Papo de Montona, alle pagg. 120-121, racconta anche di “Mario Braico, anni 26, di Villanova di Parenzo, Sottobrigadiere Mare (3971-CREM) della Brigata di Civitavecchia della Guardia di Finanza. Dalla relazione ufficiale del Comando Circolo R.(eale) G.(uardia) Finanza di Pola: Durante l’occupazione partigiana di Villanova di Parenzo (circa 7 km da Parenzo), il nostro sottufficiale, perché nativo del posto, venne invitato a prendere parte al movimento slavo-comunista, ma egli ha rifiutato decisamente di aderire. Il giorno 26 settembre 1943, alle ore 22,30, venne portato via dai partigiani e non si ebbero sue notizie sino al giorno 10 dicembre 1943, data in cui venne trovato e riconosciuto dai propri familiari, assassinato nella foiba di Surani (Antignana)”.
Vediamo altri casi ancora sugli arruolamenti forzosi nei partigiani titini. Non volontari, né liberi. Tali arruolati finiscono sempre male: eliminati. Seguiamo sempre le parole di Luigi Papo de Montona, nel suo L’Istria e le sue foibe, del 1999, alle pagine 211 e 212: «In località Sovischine (Montona) il 24 dicembre 1943 i partigiani decisero di arruolare un giovane contadino, Romano Corti – originariamente Chert – il ragazzo rispose che non ne aveva nessuna voglia e la madre, Maria Corti, si schierò dalla parte del figlio, quasi a proteggerlo. I partigiani uccisero tutti e due (…).
Giuseppe Iurincich, di Giuseppe, da Boste (Maresego) fu arruolato forzatamente, una notte tra il 1943-1944; si seppe che era deceduto in bosco.
Francesco Chermaz da Centora Valle (Maresego) fu arruolato forzatamente nel marzo 1944, di notte. Fu ucciso poco lontano dal suo paese; dissero “perché non riusciva a mantenere il passo con la colonna”.
Saulo Dobrigna di Giuseppe, da Sabadini (Maresego) fu del pari arruolato forzatamente e ucciso poco dopo mentre cercava di disertare».
Poi c’erano gli arruolamenti partigiani di requisiti della Todt, ai quali veniva chiesto di effettuare lo spionaggio. Era necessario “restare nell’organizzazione di lavoro tedesca e passare le informazioni alla resistenza”. Successe così a Emilio Biasioli (Ponte di Piave 1920 – Padova 2003), nome di battaglia “Kindeli”. Durante un’azione partigiana a Udine, il 28 aprile 1945, un nazista gli tirò una bomba a mano in faccia. Restò gravemente ferito, deturpato, ma vivo. Con un gruppo di partigiani in Via Volturno aveva fatto 14 prigionieri tedeschi, poi arrivarono centinaia di Waffen SS e lì fu ferito, secondo il racconto del 22 giugno 2015 da parte del nipote Antonio Toffoletti, di Udine. Nel giardino di una casa, lì vicino, durante la guerra ci fu un gran frastuono. "Che cosa è successo?" - chiese una vicina di casa. "Ah, niente, niente: è solo caduto un aereo tedesco qui in giardino" - rispose l'amica. Poi arrivarono un sacco di tedeschi coi camion e portarono via ogni pezzo del rottame.

3.         L’arrotino partigiano

In Val Resia, in provincia di Udine, il mestiere più diffuso, nel passato, era quello dell’arrotino. Si tratta di un mestiere ambulante. L’arrotino (“il gua”, in lingua friulana) girava di casa in casa, domandando se ci fossero forbici, coltelli o altre lame da arrotare. Luigi Barbarino Matiònow (Resia 1914 – Flossembürg 1945) faceva questa vita, tanto che negli anni 1930-1940 aveva la residenza a Gorizia, come altri suoi parenti, perché il mercato di riferimento era la Valle dell’Isonzo, annessa al Regno d’Italia, nel 1918, fino a Lubiana, in Slovenia, nel Regno di Jugoslavia (in questo caso la denominazione cambia, secondo i decenni).
Nel 1943, durante i suoi spostamenti per lavoro – come ha riferito Lucillo Barbarino, Matiònawa (Resia, 1941), da me intervistato il 7 luglio 2015 a Udine – fu intercettato dai partigiani titini del IX Corpus, guidati da un capo slavo dell’interno. Iniziarono a dileggiarlo, dicendogli che “era una spia dei fascisti”. Si creò molta tensione. Egli ribatté che non era vero e che nei paesi lo conoscevano per ciò era: un arrotino ambulante tra Gorizia, Udine e Lubiana (che nel 1941 era stata invasa dalle truppe del fascismo ed annessa al Regno d’Italia). Allora il capo partigiano, tenendo bene il mitra in evidenza, gli disse: “Vai pure!”. L’arrotino non si mosse. “Avevo paura che mi sparasse alle spalle!” – raccontò poi ai familiari Luigi Barbarino. Così ad andarsene furono i partigiani titini e lui si salvò.

Il colmo è che quell’arrotino aveva simpatie antifasciste, tanto che divenne partigiano pure lui. Durante una retata nazista nell’inverno 1944 in Val Resia fu imprigionato e portato a Udine in Via Spalato. I tedeschi avevano ricevuto una spiata, perché risalirono la stretta valle lungo il fiume ed avevano l’elenco degli individui da imprigionare. Fucilarono sul posto un capo partigiano slavo dell’interno. Poi il 10 gennaio 1945, con l’ultima tradotta in partenza per i campi di concentramento nazisti, Luigi Barbarino fu deportato a Flossembürg, per morire a Hersbruk, campo satellite. “In camerata fu colpito alla schiena col calcio del fucile da una sentinella, secondo un compaesano testimone salvatosi dal campo, mentre riporta deceduto ‘per malattia’ il referto medico pervenuto dalla Germania alla famiglia e al Comune di Resia negli anni Sessanta”. 

4.    Tra miseria e autogestione

In Friuli, negli anni della guerra fredda, circolava una barzelletta. Nel 1960-1970 certi negozi di Fiume avevano ancora l’insegna “Frisoir” (dal francese: “arricciacapelli”) per intendere il parrucchiere. In Slovenia altri negozi, dalle vetrine semivuote, per la carenza nei rifornimenti di generi di prima necessità, ma zeppe di ritratti di Tito e di bandiere rosse, recavano l’insegna “Chemiserie” (ancora dal francese, la lingua internazionale della moda femminile: “camiceria”). La storiella, a questo punto, racconta di due amici friulani, di ritorno da un viaggio di là della Cortina di ferro, che si dicono: “Âstu viodût, Toni, che di tante miserie che a àn, lu scrivin nuie mancul che tai negozis, cun la peraule “Che-miserie”, che al vûl dì: ce miserie!” (Hai visto, Toni, che da tanta miseria che hanno, lo scrivono perfino sui negozi, con la parola “Che-miserie”, che vuole dire: che miseria!).
Per la cosiddetta “miseria” patita dal 1947 al 1960, quando l’economia iugoslava mostrò un cenno di ripresa, altri italiani se ne vennero via di filato. È il caso dei Socolich di Lussino, che gestivano un forno. C’erano così pochi affari, persino nella vendita del pane, che si rifugiarono a Trieste, lasciando là la nonna che non voleva abbandonare la sua casa. Ancor oggi i discendenti delle famiglie degli esuli di Lussino, riparate a Ravenna e Rimini negli anni cinquanta, si recano sull’isola per le vacanze. Hanno ereditato una casa dai vecchi che erano rimasti a tutti i costi là. La fonte del racconto sui Socolich è: Alessandro Burelli (Udine, 1962), intervistato a Udine il 7 marzo 2015, che ha riferito le notizie di Alfio Socolich (Trieste, 1957).
Nel 1963 la Jugoslavia di Tito introdusse il principio dell’autogestione delle imprese, che fu perfezionato nel 1964-1965 e nel resto degli anni sessanta. Divenne oggetto di studi, addirittura, alla facoltà di Economia e commercio di Trieste, negli anni 1972-1975, poi finì nell'oblio, soprattutto dopo la Caduta del Muro di Berlino e la crisi delle ideologie.
Il fenomeno dell’autogestione, in realtà, provocò l’ennesima spinta all’esodo di altri italiani dell’Istria, espulsi per primi dalle strutture produttive “autogestite”. Come ha raccontato Eda Flego, di Pinguente d’Istria (Buzet, in croato), che riporta i ricordi del babbo Viecoslav Luigi Flego e della mamma Emma Nicolausich: “Mio padre era infermiere e fu il primo ad essere licenziato dopo la novità dell’autogestione, così siamo dovuti venire via dall’Istria, per giungere in Friuli da esuli. Le foibe furono usate prima dai fascisti per gettarci dentro i corpi degli antifascisti croati e sloveni, poi arrivò la vendetta dei titini che in quelle voragini buttarono i corpi degli italiani”.  Eda Flego, nata a Pinguente (Jugoslavia) nel 1950 è stata intervistata a Udine il 31 dicembre 2005.


Sitologia

Per Biasioli Emilio “Kindeli”, vedi:
http://ricerca.gelocal.it/messaggeroveneto/archivio/messaggeroveneto/2010/04/25/UD_05_UDE1.html

Bibliografia
Mauro Tonino, Rossa terra. Viaggio per mare di un esule istriano con il nipote. Tra emozioni, storia, speranze e futuro, Pasian di Prato (UD), L’Orto della Cultura, 2013.
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Questo articolo rientra nelle attività del Centro di ricerca, documentazione e produzione culturale sull’esodo giuliano dalmata, per raccogliere, testi, documenti, interviste e fotografie di quei particolari momenti storici. Il Centro di ricerca è sorto all’interno del Laboratorio di storia dell’Istituto Stringher di Udine, di cui è referente il professor Giancarlo Martina.  È parte del progetto, sostenuto dalla Fondazione Crup, “Il secolo Breve in Friuli Venezia Giulia”, che  ha ottenuto il patrocinio di: Provincia di Udine, Comune di Udine, Club UNESCO di Udine, Società Filologica Friulana, ANED, ANVGD e del Comune di Martignacco, nel cui ambito territoriale sorge Villa Italia, che fu residenza del re Vittorio Emanuele III dal 1915 al 1917.