lunedì 27 aprile 2015

La foiba di Mario e Giusto da Parenzo, 1943

Il silenzio dei profughi può durare una vita. È accaduto a Mariagioia Chersi, nata a Parenzo nel 1942. Un po’ per paura, un po’ per vergogna, non ha mai parlato di suo padre e dello zio, uccisi e gettati nella foiba di Vines, vicino ad Albona in Istria

Trieste 1949 - Mariagioia Chersi col cappottino nuovo, assieme alla mamma Giulia Gripari Chersi e allo zio Giuseppe Gripari.  (Collezione famiglia Chersi, Udine).

«Mio papà era Giusto Chersi, nato a Parenzo nel 1902 – racconta la signora Mariagioia, esule a Udine – la nostra era una famiglia di panettieri, poco dopo il giorno 8 settembre 1943 fu prelevato dai partigiani titini, assieme a suo fratello Mario, e non li abbiamo più visti».
Secondo certi storici, i partigiani attuarono così delle vendette per pulizia etnica e per le violenze subite sotto il fascismo. Giusto e Mario furono imprigionati dai partigiani in divisa?
«A parte che in famiglia si parlava poco di quei fatti dolorosi – continua la testimonianza – ma non si è mai detto che fossero in divisa, con la stella rossa sulla bustina, anzi erano due di Parenzo, parlavano italiano, uno di loro era il Bernich».
Il 16 ottobre 1943, dopo l’occupazione nazista, Arnaldo Harzarich, maresciallo dei pompieri di Pola, assieme alle autorità riesumò alcune salme dalla foiba dei colombi, nei pressi di Vines. Il secondo cadavere portato alla luce fu riconosciuto dal direttore delle miniere carbonifere dell’Arsa per Mario Chersi, fu Andrea, come sta scritto nel verbale per i servizi segreti angloamericani del luglio 1945, corredato da varie fotografie del fotografo Sivilotti, di Pola.
Diciamo subito che si è trovata un’omonimia. Il Mario Chersi cui si fa riferimento in questa intervista era figlio di Timoteo Francesco Chersi, di una famiglia di panettieri. Non va confuso, quindi, col minatore Mario Chersi di Andrea, appena citato dalla Relazione Harzarich.

Parenzo, giovedì 28 ottobre 1943: ventidue salme nella casa di Dio, avvolte nel tricolore, allineate in file di quattro con ai lati i parenti, attendono l'ufficio divino. Il Vescovo di Parenzo e Pola monsignor Raffaele Radossi, si avvicina alle bare con le mani composte in preghiera. Volge il suo sguardo addolorato ai parenti ed esclama: «Sono stato ignobilmente ingannato!». Ciò perché i partigiani titini gli avevano promesso di non fare violenze. (Collezione Ines Tami) citazione dal seguente sito web, che si ringrazia:       http://www.isfida.it/parenzo.htm


Nell'elenco delle 66 vittime della foiba di Vines, in Wikipedia, sono citati in questo modo (visualizzazione del 16 maggio 2015): 

"21. Chersi Giusto, di Francesco, anni 41, nato a Parenzo, impiegato; infoibato nel settembre-ottobre 1943.
22. Chersi Mario, fu Andrea, capo operaio nelle miniere dell'ARSA, da Albona. Potrebbe trattarsi di Ghersi Mario, di Andrea, nato nel 1889 a Sanvincenti; dipendente della stessa società; infoibato il 15-9-1943.
23. Chersi Mario, di Francesco, anni 47, nato a Parenzo, panettiere; infoibato nel settembre-ottobre 1943".

I fratelli Giusto e Mario Chersi, il primo di 41 anni, impiegato e il secondo di 52 anni, panettiere, sono menzionati a pag. 532 da padre Flaminio Rocchi nel suo “L’esodo dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati”, Roma. Difesa Adriatica, 1990. “Tra il 20 e il 22 settembre 1943 – scrive Rocchi – i partigiani slavi entrano a Parenzo. 94 persone vengono arrestate a Parenzo, a Villanova e a Torre. Senza processo vengono legate con filo di ferro e gettate nelle foibe di Vines, Zupogliano, Cimino e Surani”.

Ritorniamo all'intervista. Signora Maria Gioia Chersi, i corpi degli infoibati della sua famiglia sono stati riconosciuti dai suoi parenti?
«Sì, oltre a mia mamma Giulia – aggiunge la signora Chersi – sono stati riconosciuti da suo fratello Giuseppe Gripari, che  pur essendo di sentimenti comunisti, protestò per quello che avevano fatto i titini e così fu imprigionato. Poi fu liberato e, verso il 1947-1948, scappò travestito da donna su una piccola barca, remando di continuo da Parenzo fino a Trieste».

Al tempo della guerra fredda. Parata militare degli Alleati angloamericani su carri armati Scherman a Trieste, 10 aprile 1948. Fotografia: Luce, Istituto Nazionale, Istituto Luce – Gestione Archivi Alinari, Firenze

Signora Mariagioia Chersi, lei quando è venuta via dall’Istria?  
«Abbiamo ricevuto il visto di uscita nel febbraio 1949 – risponde Mariagioia – e siamo stati accolti a Trieste da parenti e, siccome non c’erano case a Trieste, visto il grande afflusso di profughi, siamo venuti qui a Udine, in via Castellana. A Parenzo siamo saliti su un peschereccio e abbiamo viaggiato all’aperto. Eravamo in tanti. Mi ricordo che la gente al molo, prima di salire sulla nave piangeva e, inginocchiatasi, baciava la propria terra. Mi ricordo anche che le guardie confinarie iugoslave controllavano e perquisivano ogni esule in partenza. I maschi da una parte e le femmine dall’altra. Spogliati e privati di soldi, monili d’oro e, perfino, del mio cappotto, dato che se l’è tenuto una donna in divisa, forse per una sua figlia, chissà?»
Rubare il cappotto a una bambina non è stato un grande onore per la guardia iugoslava, allora lei signora aveva freddo?  
«Sì, però la mamma e lo zio Bepi me gà comperà la bereta, el capoto e una pupa (bambola), gavemo anche la foto de quel momento. Lo zio Francesco jera al Campo Profughi de via Pradamano, dopo se andà a Milano, ecco perché gò parenti anche lì. Altri parenti nostri jera al Campo del Silos a Trieste, dove i lavatoi jera senza vetri alle finestre».  
È mai ritornata a Parenzo signora Chersi? Da quando ha iniziato a parlare di questi fatti che sono un pezzo della storia d’Italia?
«Con mio marito, che è di Pola, siamo ritornati a Parenzo dal 1962, abbiamo dei cari conoscenti lì vicino al porto, sono i Petretti, si andava in cimitero per vedere delle nostre tombe, oppure per rivedere la nostra terra, ma non ho mai trovato un posto dove stare a mio agio. Ho cominciato a parlare del papà infoibato dopo il 2010, quando a Roma al Quirinale ho ricevuto dal presidente Giorgio Napolitano un medaglia e un attestato in ricordo delle vittime delle foibe, sono riuscita a portare pure mio nipote Filippo, che era alle scuole medie, così Napolitano e sua moglie gli hanno parlato e tutti in famiglia ricordiamo quel momento istituzionale come una bella esperienza e Filippo ne ha parlato con orgoglio anche a scuola».  
Parenzo 13 dicembre 1943: i funerali delle salme recuperate dalla foiba di Villa Surani l'11 e 12 dicembre (Collezione Ines Tami) dal seguente sito web, che si ringrazia:       http://www.isfida.it/parenzo.htm

Signora Chersi, conosce altri istriani esuli qui a Udine?
«Sì, siamo in tanti, per esempio mio fratello abita al Villaggio Giuliano di via Casarsa, lui è Mauro Crisma, mia mamma si è risposata, ecco perché lui ha un altro cognome, dopo le darò i nomi di altri istriani, perché adesso noi vogliamo parlare».
Parliamo ancora. Le sembra di essere stata accolta bene dagli italiani, signora Chersi?
«Posso dire che non siamo stati bene accolti in Italia – continua la signora Chersi – per esempio, a scuola ho imparato a dire, quando mi chiedevano del papà, che era morto in guerra, perché non capivano che cosa fosse una foiba, nemmeno gli adulti».
Che cosa ne pensa di “Magazzino 18”, il musical di Simone Cristicchi sull’esodo giuliano dalmata? 
«A mio parere – replica la signora Chersi – è una cosa valida, io l’ho visto e mi ha veramente colpito. Fa capire perché siamo dovuti venir via. C’erano le pressioni continue da parte dei titini, la paura della foiba, il terrore della guerra, il disagio del dopoguerra. Un mio zio, Guido Gripari, è stato preso prigioniero dai nazisti e recluso nel Campo di concentramento di Birkenau».
Che cosa dicevano i vecchi di questa terribile situazione e dei fatti anteguerra?

«Mio nonno, Bendetto Gripari – ricorda la testimone, con un sorriso – diceva: ‘Maledetti italiani che i gà portà la lira de carta, qua ghe vol i fiorini austriaci’. Nel dopoguerra i rimasti, cioè gli italiani che riuscivano a stare in Istria per loro scelta, o che non potevano partire per il boicottaggio sui permessi di opzione da parte dei titini, ci chiedevano vari generi da loro introvabili, come caffè, lamette, sapone da barba, calze di nylon… I Petretti, ad esempio, non li hanno fatti partire, altrimenti a Parenzo non sarebbe restato neanche un fornaio. Oggi i loro discendenti (che sono bravissimi!) sono ancora lì, e gestiscono un bel ristorante, di nome Istra, naturalmente, con una bella capra istriana nel logo; lori i gà una gostionica (locanda, in croato) che funziona dal 1920, quando jera l’Italia».
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Il 20 settembre 2016, nel gruppo di Facebook “Esodo istriano, per non dimenticare”, in riferimento al presente articolo, ho ricevuto la seguente informazione di aggiornamento da Giampiero Sferco, di Roma. Riporto il messaggio così come è stato inviato, pur nella crudezza di certe parole:

«Conosco la loro tragica storia... il partigiano che li prelevò si chiamava Bernobich (non Bernich); fu fucilato dai tedeschi sotto il muro della villa dei Polesini (per i parensani: Rivetta) e rimase lì molti giorni mangiato dalle mosche e sputacchiato dai suoi concittadini...».

Cartolina di Trieste, 1940-1950, scatto fotografico da Via Capitolina sull'Anfiteatro romano e città vecchia

Parte di questa intervista è stata pubblicata il 20 aprile 2015 su friulionline.com col titolo: "La foiba di Mario e Giusto". 
Nel periodo luglio-agosto 2015, dopo aver letto l'articolo su friulionline.com il dottor Bojan Horvat, curatore del Museo cittadino di Parenzo, ha espresso il desiderio di contattare la signora Mariagioia Chersi, perché nello stesso Museo stanno "cercando di recuperare la storia parentina che si è persa con l'esodo, tramite interviste con i parentini esuli". I contatti sono in corso. Fa piacere che ci sia tale spirito di comunicazione e di pacificazione.
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Ringraziamenti: sono grato per questa intervista a Maria Gioia Chersi e ai professori Alfio Laudicina (di Pola) e Francesca Laudicina, di Udine.
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Dal sito web <<http://video.repubblica.it>> si propone un film intitolato: Liberazione Luce - Le truppe americane entrano a Trieste - maggio 1945 (muto)


Pietra miliare confinaria del 1947 tra Italia e Jugoslavia. Dal 1991 la pietra è della Slovenia indipendente, entrata dal 2004 nella Unione Europea, il cui avo è il Mercato Comune Europeo, nato col Trattato di Roma nel 1957, con sei paesi fondatori, tra i quali l'Italia.

Cartolina da Parenzo, viaggiata nel 1972, stampata a Zagabria al tempo della Federativa Repubblica di Jugoslavia. 
Collezione Daniela Maiolo, Udine.

2 commenti:

  1. Molto, molto interessante e istruttivo.
    Rivivo i racconti dei miei genitori e dei miei fratelli (all'epoca adolescenti) che, allora, abitavamo nel Comune di Pirano e mio padre era minatore a Sicciole.
    Vivevamo una situazione strana e, come sosteneva mio padre, assai pericolosa in quanto, lui, antifascista, era mal sopportato dal regime anche se, in un certo qual modo, i minatori della miniera di carbone erano considerati una sorta di "forza militarizzata" in quanto producevano materiale importante per le attività belliche. Dall'altra parte i "titini" consideravano gli itaiani tutti fascisti e quindi nemici da eliminare.
    Nei racconti di mio padre c'erano persone che sparivano all'improvviso e non se ne sapeva più niente. Ultima di queste un fornaio che ben conosceva e che abitava nella nostra stessa via Santa Lucia. Era settembre del 1943. Era già iniziatta la pulizia etnica da parte dei militari del Generale Tito. La paura era tanta. Mio padre raccolse la sua famiglia e nel giro di due giorni, con una semplice valigia di cartone, io avevo solo sei mesi, ci trovammo in un tormentato e difficile viaggio verso Urbino città natale di mio padre.

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